Milano, ottobre. Mattina grigia. Fatico a non affondare, nella opacità di questi giorni d'autunno. Mi sembra che neghino la luce e lo splendore dell'estate; che insinuino che, semplicemente, ho sognato. Devi poi smetterla, dico a me stessa camminando a capo chino, di tornare sempre col pensiero al passato. È una forma di idolatria di ciò che è stato, che non vede il presente, e ignora il futuro. Futuro. Ne ho sempre diffidato. Se penso al futuro, mi viene in mente un grattacielo altissimo che stanno costruendo qui dietro, e che sale, sale, e giorno e notte ha in cima luci lampeggianti, e stridenti gru meccaniche indaffarate. Mi ha sempre dato le vertigini, il futuro; sempre ho preferito non saperne niente. Ma se invece, mi dico, d'ora in poi audacemente osassi immaginare qualcosa di bello, che mi attende? Saresti una sciocca, ribatte la parte più razionale di me, «giacché non sai per certo nemmeno se domani sei viva». (Avete anche voi, dentro, questo continuo dibattito, come di discordi comari?)Zittisco la voce fastidiosa, e tento. Che cosa dunque potrebbe portarmi, di bello, il domani? Non ho dubbi: ciò che desidero di più sono dei nipoti. Ma i figli sono molto giovani, e, a essere ottimisti, ci vorranno dieci anni. Beh, non importa. Da oggi, mi dico, comincerò a aspettarli.Sperare, mi accorgo, è un esercizio cui non sono abituata. La mia anima razionale già ridacchia. Mi impunto: voglio – mi ordino – una speranza precisa e ben tracciata. Allora: statisticamente è probabile che, con tre figli, abbia almeno un nipote. Non so quando. Ma niente mi vieta di immaginarlo. Provo. Un giorno mia figlia mi dirà, raggiante, che aspetta un bambino. Trepiderò, zitta, discreta, per nove mesi. Una sera il telefono squillerà: «Mamma, ho le doglie». E io, in quelle ore, pregherò. Poi a notte fonda il telefono suonerà di nuovo. Mi diranno: «È nato». «E Caterina?», chiederò tutto d'un fiato. E mi diranno che dorme, che tutto è andato bene. Allora correrò in ospedale, mentre la notte – sarà di primavera – comincerà a schiarire.Arriverò mentre, all'alba, le infermiere portano alle madri i neonati per la poppata, con un grande carrello. E sentirò di nuovo quel coro straordinario di vagiti affamati, arrabbiati, impazienti, festosi che sentii io, la mattina dopo il parto. Busserò piano a una porta. Lei dormirà, e mi parrà ancora una bambina. Lui, nella culla accanto, angelico nel sonno. Non li sveglierò. Li resterò a guardare, soltanto.