A vedere la dinamica del gioco non viene proprio in mente che tre Papi (Clemente VII, Leone XI, Urbano VIII) siano potuti scendere in campo lì, sulla terra di Piazza Santa Croce a Firenze. Anche quest'anno nel giorno del patrono della città, San Giovanni, è stato siglato il legame fortissimo fra Firenze e il gioco del calcio. Non esattamente il calcio che conosciamo, non quello che stiamo vedendo negli Europei francesi. Si chiama “calcio storico fiorentino” ed è una sintesi di calcio, pallamano, rugby, lotta, pugilato.Nel suo massimo splendore, fra il Quattro e il Seicento, il gioco fu più volte praticato sull'Arno ghiacciato, anche se la partita più famosa della storia si svolse il 17 febbraio 1530 in piazza Santa Croce, per sbertucciare l'invasore, durante l'assedio di Firenze da parte delle truppe di Carlo V. Quella partita, che Piero Bargellini definì «calci sotto le cannonate», fu disputata alla presenza di tutte le autorità cittadine per sfida e dileggio al nemico assediante. I Fiorentini, per essere non solo visti ma sentiti, misero suonatori con trombe e altri strumenti sul tetto di S. Croce. Furono sfiorati da una palla di cannone finita fuori bersaglio che non creò danni, ma aumentò ulteriormente l'adrenalina.Già, l'adrenalina. La si legge negli occhi dei “calcianti” che sfilano, al fondo del corteo storico, nelle vie della città prima della partita vera e propria. La si vede scorrere a fiumi fin dal primo dei cinquanta minuti di gioco. Si inizia e sono subito botte da orbi, ovunque. Il campo diventa un vero e proprio campo di battaglia, dove 27 calcianti per fazione (la finale quest'anno era fra i “Bianchi” di Santo Spirito e gli “Azzurri” di Santa Croce, mentre i “Rossi” di Santa Maria Novella e i “Verdi” di San Giovanni erano costretti a guardare essendo stati sconfitti in semifinale) attaccano o difendono una palla anch'essa fatta di quattro spicchi. C'è un senso di staticità nei duelli, uno contro uno, che i calcianti ingaggiano e che servono a creare un varco per portare la palla verso la “caccia”, ovvero una sorta di porta che è lunga quanto il lato corto del campo. Ci si sfida, e tutti i colpi sono leciti, fino a neutralizzarsi per creare uno spazio, un corridoio. La conquista del territorio passa attraverso il sacrificio e la capacità di interpretare ogni singolo gesto individuale in riferimento a uno spartito generale. A guardare, da fuori, questo spettacolo nella sua interezza emergono due elementi: un orgoglio straordinario per la propria città e il senso di un sacrificio totalizzante per la propria squadra.Il “pre e il post” partita sono il tripudio dell'amore per “Fiorenza”, il “durante” è solo lotta, sacrificio, ossa, cartilagini, articolazioni e sangue (non si tratta di metafore) da offrire per i propri colori, che di Firenze rappresentano un quarto. C'è un terzo elemento che emerge, quello della consapevolezza di essere di fronte a un significato grande che richiede, agli spettatori intelligenti e non-fiorentini, un grande senso del rispetto. Non credo si possa spiegare che cosa significhi il calcio storico a chi fiorentino non è. I turisti, più o meno antropologicamente evoluti, non possono che godere di uno spettacolo che sa di epica, di arte gladiatoria. Bisogna sospendere il giudizio e lasciarsi affascinare dalla bellezza di gesti, talvolta anche cruenti, di chi è lì per difendere la propria storia e le proprie radici. Storia e radici scritte a fuoco in un gioco fuori dal tempo che, per differenza, ci racconta di valori molto diversi da quelli che, sempre più spesso, sono rappresentativi dello sport di oggi.Due esempi? Passano pochi minuti e le magliette diventano indistinguibili per via della sabbia della piazza. Non c'è più colore né nome su quelle magliette che la sabbia rende tutte uguali facendo sì che il contenuto diventi più importante del contenitore. Il secondo lo si scopre alla fine e ha a che fare con la ricompensa: chi vince si porta a casa solo lividi, cicatrici, onore e… una vitella chianina.