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Il voto visto da fuori: due rassegnazioni da smentire

Francesco Delzio sabato 3 dicembre 2016
Per tutti gli italiani che (come me) hanno sofferto profondamente la violenza e la forza divisiva del dibattito politico sul referendum costituzionale, l'arrivo del d-day è di per sé una buona notizia. Ma in attesa che domani si pronuncino gli elettori sovrani, una prima "sentenza" è stata già emanata in realtà dagli osservatori internazionali. Una caratteristica della campagna referendaria, infatti, è la straordinaria eco che ha avuto a livello internazionale da parte di istituzioni, media e investitori del mondo occidentale. Che hanno sovra-caricato questa nostra vicenda politica con significati che superano di gran lunga i confini nazionali e il merito della questione, trasformandola in una sorta di "terzo tempo" (dopo le vittorie di Brexit e Donald Trump) del match casta-anticasta in cui sono attualmente immersi i cittadini del mondo avanzato.
Nulla di strano – nel villaggio globale – perché eventi apparentemente distinti e distanti tra di loro fanno parte ormai di un'unica trama planetaria. Se non fosse che i report delle Ambasciate, le analisi delle banche d'affari globali e quelle dei columnist dei grandi quotidiani del mondo anglosassone hanno spesso evidenziato una particolarissima "anomalia italiana": a loro giudizio, l'esito del voto di domani non riguarda solo il progetto di riforma della seconda parte della Costituzione sulla quale ci esprimeremo, ma la capacità degli italiani di fare le riforme. È come se il nostro "credito riformista" si fosse esaurito – nella percezione del mondo – dopo decenni di immobilismo e di tragico tirare a campare. Se dovesse vincere il No, dunque, nella percezione internazionale ciò avrebbe un effetto "retroattivo", ovvero l'evento di oggi darebbe vita anche a una rilettura (in senso negativo) dei fatti politici del recente passato.
Ne emergerebbe un'Italia vittima di una doppia forma di "rassegnazione": una «rassegnazione istituzionale», poiché sarebbe fallito il secondo tentativo nel giro di dieci anni (dopo la sconfitta di Berlusconi nel 2006) di rendere più efficienti le istituzioni repubblicane, e una «rassegnazione riformista», che indebolirebbe molto l'immagine positiva che le riforme realizzate dal Governo Renzi (a partire dal Jobs Act) avevano creato nelle élite internazionali. In sostanza, la percezione sarebbe quello di un Paese dotato di meravigliosi talenti individuali, ma incapace di costruire uno Stato adeguato alle sfide della globalizzazione. È giusto tenerne conto, fermo restando il giudizio sul merito della riforma che ogni lettore avrà maturato.
@FFDelzio