Nella Commissione affari costituzionali del Senato è in atto un braccio di ferro tra la maggioranza e le opposizioni su una questione all’apparenza marginale e che invece ha come posta in gioco la sostanziale eliminazione del doppio turno nell’elezione dei sindaci.
Nei Comuni con più di 15mila abitanti, infatti, la legge elettorale vigente stabilisce che se nessuno dei candidati raggiunge la maggioranza assoluta si provvede al ballottaggio tra i due più votati. La norma che la maggioranza vorrebbe introdurre riduce al 40% la soglia per l’elezione al primo turno. Una percentuale che con l’attuale assetto degli schieramenti rischia di rendere residuale il ricorso al secondo turno di votazione.
È evidente l’interesse dei partiti che sostengono il governo a fissare una quota alla loro portata, stante una maggiore e ben sperimentata propensione all’accordo rispetto alle opposizioni. Queste ultime, viceversa, in un eventuale secondo turno potrebbero tentare una convergenza – formale o di fatto – su un candidato comune, dopo essersi presentate separatamente alla prima tornata. Purtroppo, non meraviglia più di tanto – numerosi sono i precedenti da una parte e dall’altra – che si metta mano alla delicatissima materia elettorale in un’ottica di schieramento. Ma in questo caso non si parte da zero e l’onere della prova, per così dire, incombe su chi vorrebbe modificare il sistema in vigore. La legge sull’elezione diretta dei sindaci ha compiuto trent’anni proprio ieri, il 25 marzo. Il suo varo è stato il primo, fondamentale momento di una stagione di riforme che purtroppo è rimasta incompiuta o si è persa per vie tortuose. In questi tre decenni essa ha dimostrato di funzionare piuttosto bene al punto di essere spesso additata come modello. Perché cambiare quel che funziona invece che modificare o aggiustare quel che non va? È un interrogativo pertinente a tutto il discorso sulle riforme che riguardano il sistema democratico, a cominciare dal presidenzialismo.
Una seconda riflessione riguarda il metodo. Se si vuole comunque cambiare la legge elettorale dei Comuni bisogna passare dalla porta principale, aprendo un confronto esplicito e trasparente, non approfittando dell’iter parlamentare di provvedimenti il cui baricentro è altrove. Il primo tentativo, fallito per le rimostranze delle opposizioni, è stato compiuto cercando di sfruttare il percorso della legge la cui ratio era l’abbassamento del quorum per la validità delle elezioni nei piccoli Comuni. Adesso ci si riprova utilizzando come veicolo la riforma il cui obiettivo principale è la reintroduzione del suffragio diretto nelle elezioni provinciali.
La terza riflessione prende le mosse dalla constatazione che con il doppio turno il vincitore ha sempre dalla sua la maggioranza assoluta dei votanti. Fermo restando l’imperativo ad affrontare il macroscopico problema dell’astensionismo, il fatto che gli eletti siano votati da minoranze sempre più ridotte rispetto all’insieme dei cittadini elettori rende ancora più significativa questa constatazione. Se invece la soglia per l’elezione del sindaco al primo turno fosse spostata al 40%, per assicurare un’effettiva rappresentatività senza ricorrere al ballottaggio bisognerebbe almeno introdurre qualche correttivo. Per esempio, esigere un distacco minimo di almeno 5 punti tra il primo e il secondo candidato, come suggerisce Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta.
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