Rubriche

Il virus toglie perfino il conforto della famiglia

Lucio Boldrin giovedì 29 aprile 2021
Lo scopo di questa rubrica è far sentire la voce dei detenuti. Oggi lo faccio direttamente, riportando i racconti di due di loro (anonimi, ma consenzienti), senza aggiungere altro. Servirà a evidenziare una volta di più quanto questa pandemia stia pesando come un raddoppio di pena, tra i silenzi dei magistrati di sorveglianza, i rinvii dei processi, i dinieghi a ricorsi e permessi.
Ecco la prima testimonianza:
«Non so cosa stia accadendo fuori da queste mura ma ti dico, padre Lucio, che per la prima volta sto mollando, non ce la faccio più. Mi sto consumando dentro perché mi manca la mia famiglia. Soffro in silenzio e la notte piango nel letto di questa maledetta cella. Sono sempre più stanco, chiuso in me stesso, parlo sempre meno con gli altri detenuti. Quando, in videochiamata o al colloquio, incontro un mio familiare mi presento sempre col sorriso e dico che va tutto bene. Non è così, ma so nascondere molto bene il mio dolore a coloro che amo. Non voglio farli preoccupare. Nei giorni di festa la mancanza si fa sentire ancora di più. E ogni giorno qui dentro pesa quanto un mese».
La seconda testimonianza:
«Sono entrato in carcere più di 20 anni fa e sono stato trasferito ben nove volte. Una mattina arriva un agente che ti dice: "Su, prepara la roba! Trasferimento". A quel punto non hai nessuna possibilità di rifiutare, qualcuno in alto ha deciso che devi continuare a scontare la tua condanna in un altro carcere. Ogni volta che succede mi chiedo, nel panico, dove mi stanno portando. Non tanto per me - la galera è sempre galera, dovunque sia - quanto per i miei familiari che dovranno venire a trovarmi. So, infatti, di aver causato tantissime sofferenze a mia moglie, che ha dovuto seguirmi ai quattro angoli dell'Italia portando con sé la nostra bambina. Che ora è una ragazza. Ogni tanto decidono di affrontare il viaggio per venire a trovarmi, nonostante le mie suppliche di stare a casa. Abitano nel Lazio, quindi le difficoltà per raggiungermi non sono legate alla lontananza, ma ai soldi, perché viaggiare costa. Poi, con la pandemia, tutto è ancora più pesante. Spesso loro mi hanno chiesto il motivo di così tanti trasferimenti. Mi vergogno a dirlo, ma a volte mi sono trovato costretto a mentire, dicendo che la causa era il sovraffollamento, mentre la verità era che combinavo sempre casini. Vivere con una condanna di 30 anni addosso è terribilmente angosciante, così ogni giorno ero pronto a scaricare il mio nervosismo sul primo che mi dava l'occasione di farlo, senza pensare che così rovinavo la mia vita e quella dei miei cari. Ora sono a Roma, posso fare un colloquio al mese, e spero di non essere trasferito. Ho tanto riflettuto su questa mia incapacità di accettare la realtà della carcerazione. Per anni ho vissuto con l'odio dentro e con la rabbia per un futuro che non ho, ma adesso ho deciso di cambiare. Il mio destino forse è segnato, non voglio però che mia moglie e mia figlia soffrano più a causa mia».

Padre Stimmatino, cappellano
Casa circondariale maschile
"Nuovo Complesso" di Rebibbia