Ricordo che l’erba era umida. Molti si erano portati la coperta da stendere sul prato. Scartavano panini al burro, si passavano i thermos di tè, nessuno rideva ma non c’era tristezza. C’era invece la sensazione di essere dentro qualcosa da scrivere nel tempo. Famiglie di ogni etnia riunite dalla stessa bandiera, odore di curry, bambini che correvano e adulti che lasciavano fare, tastando il terreno, come giocatori prima di una partita. È incredibile come possano essere normali i posti poche ore prima di diventare luoghi dove assistere a qualcosa di memorabile. Londra era lucida, e Hyde Park quel giorno era il rifugio di chi non aveva trovato posto lungo le transenne, e guardava il funerale della regina Elisabetta sui maxi-schermi. Scelsi anch’io quel punto di osservazione, lontano ma non distante, di sbieco, come spesso serve fare per capire meglio. Per gli inglesi quel funerale era il tributo di un popolo che ancora oggi preferisce essere fatto di sudditi più che di cittadini, ancorato alla tradizione, fiero della propria diversità. Dalla sua regina aveva imparato che il dovere è fare ciò che si deve fare. Specie su un trono di spade, dove la corona è un mestiere, la monarchia un’abitudine che conviene, la stampella della sua democrazia. E il prato di un parco era il luogo ideale per ricordarselo.
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