Mi viene chiesto se sono o se mi considero un testimone del mio tempo. L’intenzione della domanda è lusinghiera, ma la mia risposta è negativa. La prima obiezione è che il mio tempo non è mio. Lo condivido con tutte le altre persone viventi. È un tempo in comodato d’uso, con obbligo di restituzione, come prevede lo statuto del comodato d’uso. Vorrei poterlo rimettere migliore di quando l’ho ricevuto. L’altra obiezione riguarda la parola testimone. Lo è chi si trova ad assistere suo malgrado a un avvenimento, senza preavviso, colto di sorpresa. Chiamato a deporre in tribunale il vero testimone si contraddice, modifica, cerca di fissare una versione presa dai suoi sensi scossi. Spesso non è in grado di ricordare con chiarezza. Il testimone sorpreso mentre sta coi suoi pensieri e con le sue faccende è il contrario dello spettatore che è invece preparato ad assistere a uno spettacolo, a un avvenimento. Non mi considero testimone perché pretendo di svolgere una mia pur piccola parte nel tempo che mi spetta. Se il tempo è un orologio diffuso, sono un suo ingranaggio. La definizione che do di me stesso è pure questa presa dal gergo giudiziario: mi dichiaro persona a conoscenza dei fatti.
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