C’era una mano bianca dietro quei due pugni sul podio guantati di nero, l’immagine più celebre di tutta la storia delle Olimpiadi. Città del Messico, 17 ottobre 1968, cinquantasei anni fa oggi. Non c’erano solo Tommie Smith e John Carlos nell’istantanea che è diventata un simbolo: la loro vittoria senza esultanza, il pugno chiuso fasciato di pelle nera per simboleggiare la rabbia razziale. Il terzo uomo si chiamava Peter Norman. Lo incontrai a Sydney, nel 2000. Aveva 58 anni portati malissimo. Accettò l’intervista senza molta voglia di ricordare. «Smith e Carlos mi dissero che volevano fare un gesto forte: sollevare il pugno guantato sul podio. Ma per l’emozione, Carlos aveva dimenticato i suoi guanti. Mi intromisi, suggerii di indossarne uno per uno. Così mentre suonava l’inno americano alzarono il braccio entrambi, uno con un guanto sulla mano destra, l’altro sulla sinistra. Io rimasi immobile, al mio posto: la scena era tutta loro…». Peter Norman fu accusato di complicità per quel gesto rivoluzionario. Glielo fecero pagare, escludendolo da tutto. Ha vissuto nell’anonimato, distrutto dalla depressione e dalla bottiglia. «Ma sono sempre stato un uomo libero: decidere se odiare o perdonare è stata comunque una grande libertà», mi disse. È morto solo, amando un’idea che non era sua, ma che aveva contribuito a realizzare. Al bar quel giorno pagai io il conto, perché lui aveva già pagato il suo.
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