Rubriche

Il talento e l'amore

Roberto Mussapi mercoledì 20 agosto 2014
«Chi sono io? Che cosa ho creato? Io tutto ho ricevuto, tutto accolto, ho assimilato tutto ciò che mi passava accanto. La mia opera è quella di un essere collettivo che porta un nome: Goethe». Mancano pochi giorni alla fine della sua lunga e fertile vita. Johann Wolfgang von Goethe, il massimo scrittore di lingua tedesca, autore di romanzi subito famosi nel mondo come I dolori del giovane Werther, di capolavori teatrali e poetici, scienziato, studioso dei colori e di geologia, fondatore del magnifico Museo di Storia Naturale della sua Francoforte, è vecchio, sereno e famoso. Si congeda da questo mondo riassumendo il senso della sua opera: la creazione (del suo genio, che il mondo venera) non è prodotto dell'individuo, ma di una moltitudine (oggi potremmo, cautamente, tradurre, inconscio collettivo) a cui l'uomo di nome Goethe sa attingere. Sa ascoltare, guardare, apprendere, cogliere l'occasione. Il miracolo è nella realtà, nelle pietre, nei fiori, nel cielo, nei misteri dell'anima. Goethe trascura, in questo commosso testamento, il ruolo indispensabile del suo talento straordinario. E la fatica, il travaglio, la perfezione dell'artefice. Tutto ciò che ha creato è stato da lui ricevuto. Goethe, il genio, nella sua umiltà sta affermando che il segreto del genio è un amore illimitato.