Rubriche

Il «sociale» è diviso: diamo obiettivi comuni

Goffredo Fofi venerdì 9 febbraio 2018
Il cosiddetto "sociale", l'area vastissima dell'intervento sui problemi più gravi della nostra società messo in atto verso le categorie di persone meno protette, l'area formata dalle tante associazioni e dai tanti gruppi di quello che un tempo si definiva volontariato, non riesce a crescere e a farsi movimento, a trovare linee comuni, obiettivi comuni. Tante cose unirebbero, ma è come se non volessero rendersene conto, come se pensassero che divisi possano sopravvivere meglio, come - e questo è più grave - se si annidasse tra loro uno spirito di concorrenza non meno egoistico di quello dei padroni del mondo. È colpa dei tempi, si dice ed è vero. I tempi ci hanno dato la parcellizzazione delle esperienze, la fine o la miserabilità corporativa ed egoistica delle grandi organizzazioni, in particolare di quelle politiche e di quelle sindacali, la morte del welfare voluta dal potere economico e accettata da quello politico. Ma anche il dominio della tecnica e della chiacchiera (detta spesso cultura!), la fine del lavoro come lo hanno inteso le passate generazioni, la disoccupazione e il precariato giovanile. La lotta per la sopravvivenza è tornata ad avere aspetti darwiniani, e si sopravvive anche fondando iniziative benefiche, a volte solo tappabuchi, a volte superflue come la grandissima parte di quelle della cosiddetta comunicazione, e qualche aiuto le associazioni più accorte riescono a trovarlo nell'Europa dei bandi, nelle fondazioni internazionali e a volte nazionali (che servono a tener buoni coloro che si è voluto immiserire) e in quel che resta delle nostre istituzioni. Per una parte di loro la cosa che viene prima di tutte è, anche se non osano dirlo ad alta voce, la propria sopravvivenza, mentre secondario è l'aiuto che si dà a chi ne ha bisogno. Le meglio quotate sono quelle che sanno fare progetti approvabili e finanziabili, che sanno leggere i bandi europei, che sanno servirsi di buoni commercialisti, che sanno tenere buoni rapporti con qualche gruppo politico e soprattutto con banche e istituti finanziari. Ognuno per sé, dunque, nonostante gli sforzi delle associazioni più serie, in genere o sempre d'area cattolica. Anche se sono d'area cattolica molte delle più accentratrici. Il sociale non esprime pensiero, oggi, non ha teorie solide, analisi precise del contesto, utopie concrete (e anche non concrete!)... Si direbbe proprio che il sociale "non pensa", e questo è un suo limite insostenibile e imperdonabile. Vasta è la chiacchiera buonista, che va dal minimo al massimo, dal particolare fin troppo preciso al generale fin troppo astratto. Davvero c'è bisogno di altro: di un pensiero che leghi, e dia forza, spinga ad agire insieme per il bene di tutti. E se questo non viene da questa parte della società, ce n'è forse un'altra dalla quale potrebbe oggi venire?