Filologo di fama mondiale, continuatore di Gianfranco Contini, il francescano Giovanni Pozzi (1923-2002), ha scritto libri imponenti come
Sull'orlo del visibile parlare (1993) e l'edizione riveduta dell'edonistico
Adone di Giovan Battista Marino (1988), ma anche in un piccolo testo come il suo
Tacet (Adelphi, pp. 48, euro 7) si gusta la grandezza di chi è veramente grande. È uno degli ultimi scritti di padre Pozzi, quasi un testamento, ed è inevitabile lasciarsi prendere per mano da un maestro che sa spiegare che «l'uomo è un solitario non solo», «nasce per divisione, ma di per sé tende all'uno», segnalando il rischio che lo spogliamento della solitudine degeneri in narcisismo. Il solitario, «svincolatosi dalla tirannia del contiguo, non può sottrarsi a quella dello spazio, perché ogni luogo solitario finisce di essere tale quando viene a dimorarvi un solitario». Ai solitari di Dio, «tolto il dualismo sessuale, resta quello di anima e corpo», per liberarsi dal quale intervengono il digiuno e l'astinenza degli eremiti che rifiutano perfino il vestiario, degli stiliti in piedi sulle colonne superstiti dal crollo dei templi, dei monaci sigillati nella loro cella. E tuttavia, «sopito il dualismo di anima e corpo, di turba e deserto», rimane il dualismo più insinuante, quello «di parola e silenzio». Qui padre Pozzi ha parole seducenti sulle «tre categorie di silenzio collegate alla parola: di chi la formula, di chi l'ascolta, di chi la conserva». Ed è sferzante sulla nostra epoca che ha bandito il silenzio: «Se nel corso di un discorso pubblico o di una liturgia s'impone una pausa di silenzio, immancabilmente uno si mette a tossire, uno fa scricchiolare il banco, uno sfoglia le carte sottomano, una apre la borsetta». «L'apice del silenzio di ascolto si ha quando la parola stessa si presenta silenziosa senza perdere alcunché della sua vitalità: nella lettura». Poi, chiuso il libro, al silenzio dell'ascolto subentra nel lettore il silenzio del ricordo di ciò che ha letto: è il silenzio di memoria. A questo punto, padre Pozzi passa dalla
lectio alla
meditatio, «sulla cui cima si apre il giglio dell'
oratio in forma di parole ricordate, ricombinate, rielaborate, reinventate, ricopiate (lo spirito alto e puro copia, il mediocre imita)». Dal silenzio contemplativo, lasciandosi guidare dal cappuccino Bartolomeo Barbieri da Castelvetro, discepolo secentesco di san Bonaventura, dalla beata (e, dal 9 ottobre scorso, santa) Angela da Foligno e da santa Veronica Giuliani, padre Pozzi perviene alla «discesa annichilativa». Veronica Giuliani, «ferma nella volontà divina, rinuncia a identificarla; in seguito perde l'avvertenza stessa di conoscere quella volontà; ma anche di quel barlume di conoscenza deve spogliarsi, deve ignorare non solo che cosa sia conoscere, ma anche che cosa sia non conoscere». E Angela da Foligno: «Benché tristezze e gioie provenienti dal di fuori possono penetrarmi un poco, tuttavia c'è nell'anima mia una cameretta nella quale non entrano né letizia, né tristezza, né diletto alcuno di virtù, né soddisfazione per nessuna cosa che abbia un nome». Posizione affascinante, ma non immune dall'eventuale pericolo che dal silenzio interiore, dallo svuotamento di sé, qualcuno giunga alla contemplazione del nulla. Di altra scuola santa Caterina da Siena, santa Teresa d'Avila, santa Faustina Kowalska, le quali, come molti altri santi, hanno tematizzato, proposto e praticato lo svuotamento di sé non per contemplare il vuoto, ma per riempirlo dell'amore di Dio, gustandone il sapore.