Ha raggiunto in questi giorni il traguardo dei 100 anni monsignor Vittorino Youn Kong-hi, l’arcivescovo emerito di Gwangju in Corea del Sud, il più anziano tra i vescovi dell’Asia. Una ricorrenza trascorsa senza grande clamore, per una questione culturale: nonostante, infatti, due anni fa la Corea del Sud abbia ufficialmente cambiato il suo sistema del computo dell’età, uniformandolo a quello del resto del mondo, la tradizione coreana continua a conteggiare gli anni al loro inizio. La Chiesa locale, dunque, ha festeggiato già dodici mesi fa monsignor Vittorino, che è anche uno degli ultimi quattro vescovi ancora in vita tra gli oltre 2.500 che presero parte al Concilio Vaticano II.
Al di là dei suoi “record”, però, è soprattutto un altro il motivo che rende particolarmente significativo in questo 2024 il compleanno dell’arcivescovo emerito di Gwangju: l’8 novembre 1924, infatti, Youn nacque in una famiglia di Jinnampo, cioè in una città che oggi fa parte della Corea del Nord. Il suo, dunque, è un volto della comunità cattolica che esisteva al di sopra del 38° parallelo e venne soffocata dal regime comunista. Nel gennaio 1950 l’allora seminarista Vittorino riuscì a raggiungere Seoul dove poi sarebbe stato ordinato sacerdote pochi mesi dopo. L’anno prima era già stato arrestato l’allora vicario apostolico di Pyongyang, monsignor Francesco Borgia Hong Yong-ho, vittima della persecuzione come decine di altri sacerdoti e laici nordcoreani: scomparsi nel nulla, da una decina d’anni è aperta la causa di beatificazione sul loro martirio. Quanto a padre Youn, invece, una volta divenuto prete fu chiamato a svolgere il suo ministero come cappellano proprio tra gli esuli nordcoreani in un campo allestito dall’Onu per loro a Busan. Nel 1963, poi, ad appena 39 anni, Paolo VI lo nominò come primo vescovo di Suwon, per poi affidargli dieci anni dopo l’arcidiocesi di Gwangju che ha guidato fino al 2000. Anche in questa città della Corea del Sud si sarebbe trovato, suo malgrado, a incrociare i drammi della storia: in un’intervista rilasciata qualche anno fa, monsignor Youn raccontò di aver capito fino in fondo che cosa significava essere vescovo il 18 maggio 1980, quando proprio a Gwangju il regime di Chun Doo-hwan stroncò nel sangue le proteste dei movimenti pro-democrazia e lui si schierò apertamente dalla parte della difesa dei diritti umani.
L’arcivescovo Vittorino resta, però, soprattutto la memoria viva della ferita della divisione tra Seoul e Pyongyang. Quella frattura che proprio oggi appare sempre più profonda con il moltiplicarsi dei lanci di missili e l’estensione persino a conflitti lontani come quello in Ucraina. «La gente dice che è difficile sperare nella pace ora – hanno scritto proprio in questi giorni in un nuovo appello al dialogo i vescovi coreani –. Tuttavia, la Chiesa, che crede in Cristo che ha vinto la morte ed è risorto, non perde mai la speranza. Questa speranza ci dà il coraggio di superare la paura e ci permette di scegliere la via dell’amore e della riconciliazione anche nei momenti di conflitto».
In un libro dedicato alla storia della Chiesa in Corea del Nord basato sui suoi ricordi, l’arcivescovo Youn nel 2021 raccontava di non poter fare nulla per la Chiesa di Pyongyang se non pregare per la pace. Aggiungeva, però, di essere allo stesso tempo profondamente convinto che oltre il 38° parallelo «la Chiesa sta crescendo nella clandestinità, proprio come gli alberi del seminario di Tokwon», da lui frequentato e chiuso con la violenza nel 1949. «Ogni anno sulle piante spuntano nuovi germogli, lo stesso accade per i cristiani nascosti da qualche parte al Nord».
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