Che bello sarebbe un mondo dove poter vivere senza la necessità di ricorrere a continui distinguo fra presunte superiorità morali di discipline sportive rispetto ad altre. Troppe volte è stata posta una linea di demarcazione fra il calcio e le altre discipline sportive come se, fra di esse, ci fosse una differenza ontologica: calcio contro tutti e tutti contro il calcio, in sostanza, con l’etica appannaggio soltanto di alcuni sportivi, mentre di altri no. Il professor Keating, interpretato da un indimenticabile Robin Williams nel capolavoro cinematografico L’attimo fuggente, insegnando calcio e poesia diceva: «Dunque, gli appassionati di uno sport sostengono che quello sport è intrinsecamente migliore di un altro. Per me, tutti gli sport sono occasioni in cui altri esseri umani ci spingono ad eccellere». Già, tutti gli sport dovrebbero essere strumenti verso l’eccellenza, tanto per i protagonisti sul campo, quanto per i tifosi che, da quei protagonisti, dovrebbero trarre ispirazione. Eppure, ancora una volta, lo sport riesce ad andare in cortocircuito (a poche ore e in pochi chilometri di distanza) anche in quella Francia che pure, per tante ragioni, è un modello di cultura sportiva. Sabato, a Parigi, abbiamo infatti assistito a una combattuta ed epica finale del campionato del mondo di rugby, terminata con un solo punto di scarto. Match controverso, tiratissimo, con un’espulsione accettata senza praticamente battere ciglio. Hanno vinto gli Springboks, la nazionale sudafricana che il suo primo mondiale lo vinse nel 1995, davanti agli occhi di Nelson Mandela e che rappresentò il colpo di grazia capace di segnare la fine dell’apartheid. Hanno perso gli All Blacks, la nazionale neozelandese, con una conclusione indimenticabile e commovente quando Aaron Smith, capitano alla sua ultima partita, dopo aver guidata la haka ha indossato la sua medaglia d’argento, mostrandola poi con orgoglio al figlio che lo aveva raggiunto sul campo (come ha scritto ieri Vincenzo Spagnolo su queste pagine). Tutto ciò in mezzo a un clima splendido, una cornice di pubblico entusiasta. Poi, poche ore più tardi e un poco più a sud, a Marsiglia, è andato in scena uno psicodramma collettivo allo stadio Velodrome, dove il bus che portava la squadra di calcio del Lione ha subito una vera e propria imboscata da parte di un gruppo ultras. Vetri che esplodono e l’allenatore del Lione, l’italiano Fabio Grosso, colpito al volto da una pietra. Non entro neppure nel merito dei motivi, non li voglio neanche sapere. Non entro nel merito delle tensioni interne del Lione, non entro nel merito della storia dei tifosi del Marsiglia, tanto meno nell’importanza del match. Anche L’Equipe, storico quotidiano sportivo capace di orientare la cultura sportiva del Paese transalpino, ha deciso di dedicare la sua prima pagina al volto insanguinato di Fabio Grosso. Una scelta coraggiosa, in un momento storico in cui di sangue se ne vede anche troppo. Una chiamata, che sembra l’ultima, al calcio e a quella sua, chissà, forse ingenua o utopistica “spinta verso l’eccellenza” di cui parlava il professor Keating. Una chiamata che, soprattutto, impone una enorme e collettiva responsabilità mentre, nel frattempo e in ogni caso, il resto del mondo va in fiamme.
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