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Il sacrificio in Burundi di quei tre italiani coraggiosi

Claudio Monici domenica 7 ottobre 2018

Volava l'asfalto, navigava la mente e un pudico silenzio conteneva le emozioni che emergevano dai ricordi. Correva la jeep puntando a sud, strappando chilometri alla strada nazionale numero 7. Dal finestrino sfilava un mondo umile composto da villaggi di contadini con la schiena curva a dissodare i campi. Erano silenzi che accarezzavano piantagioni di tè dalle piccole foglie verdi e di caffè macchiettate di bacche rosse. Lo sguardo di ognuno di noi passeggeri cercava di distrarsi seguendo il sinuoso alternarsi delle colline, mentre prima d'ogni curva l'ansia saliva tarpando il respiro per il timore delle imboscate. Militari, ribelli, bande armate di sbandati, tagliagole, banditi, s'incontrava di tutto sulle strade del Burundi in quei giorni di guerra.
I muti pensieri dei passeggeri s'intrecciavano tra di loro senza saperlo, perché la rete invisibile dei ricordi puntava dritta a un luogo sperduto a duemila metri d'altezza, dove saremmo arrivati con tre ore di viaggio. La missione cattolica di Buyengero. Un anno prima, l'ultimo giorno del mese di settembre, 25 bossoli di mitra sparati a raffica uno dietro l'altro tintinnavano al suolo, mentre una pozza di sangue s'allargava attorno ai corpi di tre italiani giustiziati a sangue freddo. La loro colpa? Il coraggio della verità, contro le ingiustizie e le menzogne sui massacri dei civili.
Accadeva la sera del 30 settembre 1995, quando gli assassini, tre militari burundesi rimasti impuniti, abbattevano i padri saveriani Aldo Marchiol, 65 anni, Ottorino Maule, 53, e la volontaria Katina Gubert, 74. Tutti e tre erano consapevoli che non sarebbero vissuti a lungo, era solo una questione di quando. «Se muoio qui lasciatemi in Africa. Basta una stuoia come la povera gente», lasciò detto Katina ai suoi familiari in Italia.
Nel mentre del nostro viaggio, padre Marchetto, saveriano dalla scorza africana spessa più di trent'anni, rapiva la mia curiosità per la sua inesauribile memoria. Una folta biblioteca di ricordi che sgorgava ricca di aneddoti e storie sul Paese che stavamo attraversando. Era come un fiume in piena. Anche padre De Cillia, con una mano ad accendersi l'ennesima sigaretta e l'altra salda a tenere il volante del potente fuoristrada giapponese, di cose da raccontare ne aveva parecchie e molte vissute sulla sua pelle. Poi c'era padre Pulcini, il superiore, che se ne stava silenzioso, tenendo in grembo le vesti sacre per la Messa di suffragio.
Ma più delle tante storie narrate per accompagnare il nostro viaggio e allentare il turbamento, erano gli occhi che luccicavano di piccole lacrime a raccontare quanto ancora vivo e doloroso fosse il ricordo che i miei compagni di viaggio conservavano dei loro confratelli e di Katina, avendo l'anno prima ricomposto i loro corpi straziati.
Correva l'asfalto, strade ben conosciute da padre De Cillia che le saliva e ridiscendeva da decenni col suo camion scassato sempre carico di sacchi di cemento per l'ennesimo ospedale, o le casette di mattoni da tirar su per quella povera gente. Arrivammo sulla vetta di quella collina silenziosa che il sole splendeva alto. All'ombra del campanile erano allineate tre croci e una scritta diceva: Hahiriwe abaremesha amahoro, beati quelli che danno forza alla pace. La chiesa di mattoni rossi e pietra bianca, sarà stato per effetto dell'altitudine, sembrava ancor più vicina al cielo. Sotto lo sguardo benevolo del Padreterno.