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ulu, Uganda, 2006 - Al Lacor Hospital nel 2000 scoppiò la terribile epidemia di virus Ebola che fece strage di pazienti e medici. Oggi, sei anni dopo, il Lacor è un ospedale ordinato e pulito. Nei letti lenzuola candide e ravviate. I malati ci seguono, muti, con lo sguardo. Hanno l'Aids, o la malaria, o infezioni contratte nei campi profughi qui attorno, dove il popolo Acholi, tormentato da anni dai ribelli del Lord Resistance Army, consuma una vita miserabile.Le facce nerissime dei pazienti sul candore dei cuscini però sembrano serene. Al passare delle infermiere mi meraviglia che nessuno le ferma, nessuno chiede niente. Come se questi uomini fossero già increduli e grati di un letto pulito, del cibo, dell'acqua. Il silenzio di questo posto mette soggezione. Sembra un silenzio sacro. In una culla c'è un neonato piccolissimo. Dorme: il respiro irregolare e affannato gli fa sussultare bruscamente il petto. Quale male ha già ereditato, nel sangue? È così inerme, sembra un passero nel nido. Vorrei prenderlo in braccio, ma non si può. Resto a guardarlo a lungo, avvinta, ma solo andandomene lo riconosco: è l'Agnello, è l'innocente il cui dolore accompagna ancora la Croce di Cristo. Si esce zitti, domati, dal Lacor. Una culla nel fondo dell'Africa - e il respiro di Dio, così vicino.