Caro Avvenire, ho sempre pensato che il referendum sia un istituto antidemocratico. Le mie considerazioni politicamente scorrette mi fanno considerare prezioso solo il primo, istituzionale, su Monarchia o Repubblica (1946). Penso che se vi sono problemi, anche solo di natura etica, vadano risolti da una commissione di esperti (super e onesti), non dalla pancia della “gggente”. Voglio ricordare che il quorum vuole solo il 50% degli aventi diritto al voto più uno. Già è difficile sottostare alla dittatura della maggioranza (vera, cioè di tutti), figuriamoci a quella della piccola minoranza di una parte.
Mario Grosso
Gallarate
Caro Grosso, mi permetta di dirle, con un calembour non troppo originale, che lei la spara davvero “grossa”. Ma, d’accordo con il direttore, prendo l’occasione per qualche piccola nota in argomento. Come si sa, in Italia il referendum è abrogativo (ne abbiamo avuti anche uno di indirizzo e 4 costituzionali): nelle 72 chiamate alle urne dal 1974 in ben 33 casi vi è stata nullità a causa della bassa partecipazione (spesso a motivo della scarsa rilevanza percepita del quesito, ad eccezione di quelli sulla procreazione medicalmente assistita del 2005). Alcune consultazioni sono state particolarmente divisive, come quelle sul divorzio e l’aborto e il nucleare.
Questi ultimi casi mi sembrano esemplificativi dei pro e dei contro circa l’istituto di democrazia diretta in un sistema basato sulla delega delle decisioni ai rappresentanti eletti.
Si può negare ai cittadini di esprimersi su questioni etiche che lacerano le coscienze e hanno ricadute concrete rilevantissime nella vita di ciascuno? Penso proprio di no. Perché dovremmo fare decidere alcuni esperti su tematiche che hanno aspetti scientifici ma che implicano soprattutto scelte di valori e principi che non si possono facilmente conciliare su un piano tecnico neutro, come appunto l’aborto?
Diverso è il discorso sull’energia ricavata dall’atomo. Qui è possibile che decisioni emotive prendano il sopravvento. Si votò dopo il disastro di Chernobyl, tragico ma dovuto a circostanze eccezionali sotto il regime sovietico, e il dibattito sulla reale sicurezza delle centrali di concezione occidentale fu fin dall’inizio falsato. Un gruppo di esperti potrebbe avere un approccio più equilibrato e distaccato. Eppure qui, a mio avviso, bastano i legislatori ben informati e orientati al bene comune senza cedimenti ai populismi di vario segno.
L’aumentata disaffezione verso la possibilità di manifestare la propria volontà – sia per scegliere parlamentari o sindaci (l’astensione al ballottaggio di domenica scorsa smentisce anche l’idea che la vicinanza dei problemi accresca l’affluenza) sia per decidere su questioni specifiche – sembra indicare che la “pancia” come dice lei, caro Grosso, spinga oggi non a fare vincere i sentimenti superficiali sulla razionalità bensì a un’inerzia o una rassegnazione che dovrebbero farci rimpiangere le più accese battaglie referendarie.
Votare con un sì o con un no non è procedura anti-democratica se ben regolata, come avviene nel nostro Paese. Ci avviamo a referendum sulla riforma in corso del premierato e forse su quella già approvata dell’autonomia differenziata. Sono progetti, secondo i loro promotori, tesi a rendere i cittadini protagonisti. Sarebbe un paradosso se non si promuovesse la maggiore mobilitazione per questi appuntamenti tanto importanti.
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