La proposta del governo sul premierato – a cui in commissione Affari costituzionali è stato abbinato il ddl Renzi – ha cominciato il suo iter al Senato. Siamo ancora alla fase delle audizioni e nelle cronache spicca la serie di interventi critici degli ex presidenti della Consulta. Se si esclude l’approvazione unanime sulla legge contro la violenza sulle donne non si può certo dire che in questa fase si respiri un clima favorevole alle intese larghe sui grandi temi. Anche nella commissione di Palazzo Madama la partenza è stata burrascosa, con le scintille tra il presidente di Fdi e il vice del Pd. A essere precisi le polemiche erano cominciate ancora prima, con la scelta di far partire l’iter dal Senato dove già si discute da tempo l’altro corno delle riforme, quello dell’autonomia differenziata, scelta contestata vivacemente dalle opposizioni.
Eppure, la posta in gioco in una riforma che investe la stessa forma di governo è troppo alta per rinunciare a cuor leggero all’idea di una convergenza ampia. Se nella seconda votazione di ciascun ramo del Parlamento la legge di revisione ottiene i voti dei due terzi dei membri delle Camere, non si dà luogo a referendum, stabilisce l’art. 138 della Costituzione. Una clausola di garanzia per le minoranze, ma anche un robusto incentivo a scegliere la via di maggioranze estese. Ci sono ancora margini per provare?
Sarà che tutti hanno lo sguardo orientato alle elezioni europee, ma in entrambi gli schieramenti finora hanno dominato le pregiudiziali ideologiche. Semplificando, ma non troppo: da una parte, l’elezione diretta del premier è diventata un’istanza identitaria non negoziabile (almeno per Giorgia Meloni), un segno epocale da consegnare alla storia; dall’altra, il nucleo duro del pensiero è stato che, tutto sommato, le riforme costituzionali è meglio non farle, tanto meno con questa destra. Le due posizioni si sostengono reciprocamente e scommettono sul referendum. Ma è una partita con un tasso di azzardo molto elevato. Al punto che la stessa premier ha già messo le mani avanti: in caso di sconfitta, non si dimetterebbe, come invece fece Renzi. Ora, fermo restando che non ci sarebbe alcun obbligo formale, è davvero pensabile che resti al suo posto dopo essere stata battuta sulla “sua” riforma e in virtù proprio del voto popolare?
Ma anche sull’altro versante devono pensarci bene. I precedenti dei referendum sulle riforme di Berlusconi (2006) e Renzi (2016) non vanno enfatizzati. La società è profondamente cambiata e la proposta governativa sul premierato è congegnata in modo tale da essere molto più “referendabile” delle maxiriforme.
Forse il raffronto andrebbe fatto con la consultazione sul taglio dei parlamentari e sappiamo com’è andata a finire.
Almeno per prudenza, quindi, varrebbe la pena verificare fino in fondo e con realismo la possibilità di un dialogo concreto. Partendo da quel che effettivamente serve al Paese e non dagli slogan. Come dimostrano anche le recenti proposte messe a punto da Stefano Ceccanti e da Gaetano Quagliariello e Peppino Calderisi, non è impossibile elaborare alternative tecnicamente valide intorno a cui provare a costruire un consenso parlamentare adeguato. Il problema è capire se governi stabili e ben connessi con il voto sono il vero obiettivo della riforma o se invece si perseguono surrettiziamente altri disegni.
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