La ministra Casellati ha fatto sapere che la proposta di legge sul premierato – a cui in questi mesi ha lavorato con innegabile impegno – è sul tavolo della presidente del Consiglio e nelle prossime settimane approderà in Consiglio dei ministri. In altri tempi si era soliti dire che il percorso delle riforme istituzionali era altro rispetto a quello dell’esecutivo perché la materia delle regole del gioco riguardava essenzialmente il Parlamento. Altri tempi, appunto, anche se a essere onesti la distinzione non è mai stata così netta ed è andata sempre più scemando: gli ultimi tentativi di “grande riforma” sono stati compiuti a colpi di maggioranza e non hanno avuto buona fortuna. Dopo di che, forse anche per i continui rinvii di interventi di revisione ben ponderati, oggi ormai gli esecutivi tendono a fare e disfare in ogni campo. Basti pensare allo spettacolo di arte varia intorno al proliferare incessante dei decreti-legge.
«Parliamoci chiaro: mentre si discute di premierato, il premierato lo abbiamo già sotto gli occhi. Ed è interpretato al meglio da Giorgia Meloni». Lo ha scritto meno di un mese fa un costituzionalista “di destra”, stimato e di lungo corso, Paolo Armaroli, noto per la sua schiettezza. Armaroli, a scanso di equivoci, è un convinto fautore della riforma e con il suo intervento intendeva sostenere la tesi secondo cui, nonostante il «premierato di fatto» (ancora parole sue), in questi mesi il ruolo del Presidente della Repubblica non avesse subìto contraccolpi. Perché questa preoccupazione? Perché anche tra i favorevoli al premierato ci si è resi conto che sarebbe un controsenso depotenziare l’istituzione in cui la stragrande maggioranza degli italiani volentieri si riconosce. L’istituzione (e anche la persona che attualmente la incarna) che ha svolto in questi anni un ruolo fondamentale per la tenuta del sistema Paese, all’interno come all’esterno. Ecco allora un rincorrersi di prese di posizione per assicurare che i poteri del Quirinale non saranno penalizzati. Come questo possa accadere se il capo del governo viene eletto direttamente nelle urne ed è lui che nomina i ministri e decide lo scioglimento delle Camere al momento resta piuttosto misterioso. Però ancora non si dispone di un testo ufficiale e completo della proposta di riforma e quindi ogni valutazione è provvisoria. Anche perché in questa materia i particolari possono essere determinanti e provocare cortocircuiti sorprendenti. Nella bozza diffusamente fatta circolare, per esempio, compare una norma cosiddetta “antiribaltone”. In pratica, in caso di cessazione dalla carica (è un’ipotesi che anche il più rigido dei sistemi deve prevedere), non è detto che si debba tornare per forza alle urne: il premier può essere sostituito purché il nuovo sia espressione della stessa maggioranza che ha votato la fiducia all’inizio della legislatura. Qualcosa di simile c’era già nella riforma Berlusconi del 2005 – poi bocciata dal referendum nell’anno successivo – e già allora Stefano Ceccanti, acuto costituzionalista e in passato anche parlamentare del Pd, metteva in guardia dal rischio di una clamorosa eterogenesi dei fini: per impedire il “ribaltone” si finisce per consegnare ai partiti più piccoli il potere non solo di minacciare la crisi di governo, ma addirittura la fine anticipata della legislatura.
© riproduzione riservata