Nel testo approvato dalla commissione affari costituzionali del Senato, il disegno di legge sul premierato non prevede più il premio di maggioranza pari al 55% dei seggi che tante polemiche aveva sollevato sin dalla presentazione della proposta. I costituenti avevano volutamente evitato di scegliere questo o quel modello elettorale, nonostante all’epoca fosse forte la spinta per codificare il sistema proporzionale, e con lungimiranza avevano lasciato al legislatore ordinario la responsabilità di provvedere tenendo conto delle mutevoli situazioni sociali e politiche. L’idea di cristallizzare oggi nella Carta un riferimento così esplicito, persino in termini numerici, era apparsa subito una forzatura. Così la maggioranza ha deciso rimuoverlo, ma il sistema elettorale è ricomparso nel testo in altra forma. Nell’art. 3 del ddl, infatti, si afferma che la nuova disciplina elettorale dovrà stabilire «un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio». Non è chiaro, per inciso, come il premio su base nazionale possa conciliarsi con l’art. 57 della Costituzione secondo cui il Senato è eletto su base regionale. Forse i sostenitori del premierato si sarebbero creati molti meno problemi con un richiamo di principio alla governabilità, tanto più che il tema della legge elettorale è stato rinviato alla fase successiva alla prima deliberazione del Parlamento, stando alle dichiarazioni del ministro Casellati. Una tempistica criticata dall’opposizione – ma anche da alcuni settori della coalizione di governo – perché è a dir poco problematico valutare una riforma tutta incentrata sull’elezione diretta del premier senza conoscere in parallelo le modalità di tale elezione. Come se contasse solo l’investitura popolare del premier e quanto al resto... l’intendance suivra, per dirla con De Gaulle (e con Napoleone).
Nella storia della Repubblica i precedenti del premio di maggioranza a livello nazionale non sono entusiasmanti. A cominciare dalla legge voluta da De Gasperi nel 1953 in cui il premio scattava oltre la soglia del 50%, obiettivo mancato sia pure per pochissimi voti. Mezzo secolo dopo toccò al Porcellum del leghista Calderoli, applicato nelle elezioni del 2006, del 2008 e del 2013, prima di essere bocciato dalla Corte costituzionale. Qui la mancanza di una soglia minima (altro che il 50% di De Gasperi) consentiva un premio in seggi potenzialmente abnorme, soprattutto nel caso di un esito a tre poli, come avvenne nel 2013 con l’exploit del M5S. Il centro-sinistra con poco più del 29% ottenne la maggioranza dei seggi, ma solo alla Camera. Al Senato, con il premio assegnato su base regionale per il vincolo dell’art. 57, nessuno arrivò al traguardo. E da quel momento è iniziato un avvitamento del sistema che scontiamo ancora oggi.
La lezione del voto del 2013 dovrebbe indurre senza incertezze a prevedere il ballottaggio qualora nessuna coalizione raggiungesse una soglia ragionevole di voti. Almeno il 40%, estrapolando la giurisprudenza costituzionale sul tema. Ma nel caso del premierato si tratterebbe di eleggere non un’assemblea rappresentativa quanto un organo monocratico dotato in teoria di amplissimi poteri. E non sarebbe opportuno, anzi, necessario, che questo avvenisse con la maggioranza assoluta dei voti?
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