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Il Ponte, una canzone e la storia del pallone

Mauro Berruto mercoledì 27 febbraio 2019
Un albero che cade fa molto più rumore di una foresta che cresce, figurarsi il rumore tragico, straziante, assassino del crollo del Ponte Morandi a Genova, il 14 agosto scorso. Grazie al cielo, tuttavia, ci sono foreste che crescono proprio lì intorno al torrente Polcevera e di cui vale la pena parlare. Lo ha fatto venerdì, benissimo, su questo quotidiano Angela Calvini, raccontando come i semi di questa foresta li stia piantando un artista genovese, che risponde al nome di Paolo Kessisoglu. Paolo, conduttore insieme a Luca Bizzarri della trasmissione "Quelli che il calcio", quel tragico giorno era a San Francisco, in California. «Deve essere stato quel disagio, quella lontananza - racconta - a farmi sedere davanti a un pianoforte trovato casualmente in una libreria e scrivere una canzone sotto dettatura, d'impeto, io che di solito scrivo con la testa». L'arte (e soprattutto la musica) è da sempre un rifugio, un balsamo, un modo di lenire il dolore, un posto dove rifugiarsi quando si soffre. Paolo Kessisoglu, genovese la cui famiglia è di origine armena, cita un altro artista genovese, nato in Eritrea, Bruno Lauzi: «Perché scrivo solo canzoni tristi? Perché quando sono allegro esco!».
Tornato e visto lo scempio con i propri occhi, Paolo ha chiesto di interpretare quella canzone, che si intitola "C'è da fare", a un po' di suoi amici. Ne è venuto fuori un elenco di 25 straordinari artisti tutti desiderosi di dare il loro contributo. Fin qui sarebbe una splendida storia di amore per Genova, perché tutto il ricavato della commercializzazione di questo brano musicale verrà destinato al Progetto Occupy Albaro, che vuol far rinascere la zona sotto al ponte collassato. A questo punto, però, scatta la seconda anima di Paolo, quella di persona che crede in un altro balsamico linguaggio universale, ovvero lo sport. Nell'operazione di ricostruzione, materiale e morale, di quel luogo c'è infatti un progetto ambizioso: un impianto sportivo. Il posto non è casuale, perché Paolo grande tifoso genoano, racconta che proprio lì, dove sarebbe poi sorto il Ponte Morandi, negli ultimi anni dell'800 c'era la Piazza d'Armi del Campasso, un grande spazio verde dove il suo Genoa aveva tirato i primi calci. In sostanza la culla ottocentesca del calcio italiano. Su quei prati intorno al Polcevera, il dottor James Spensley, che sbarcò a Genova da una nave inglese dove faceva il medico di bordo, raccoglieva i suoi connazionali desiderosi di praticare uno sport che stava prendendo sempre più piede: il football. Quella era la Genova che era tornata al centro di nuove rotte commerciali dopo l'apertura del Canale di Suez, c'era un'energia rinnovata, contaminazioni, ricchezza economica e spirituale. Spensley, medico, era anche uno sportivo (oltre a fondare il Genoa, ci giocò anche come difensore centrale e portiere), fu colui che diede impulso definitivo allo sviluppo dello scautismo in Italia, giornalista e corrispondente del quotidiano inglese "Daily Mail", appassionato conoscitore di religioni orientali e di molte lingue tra cui il sanscrito e il greco, antropologo de facto che, in tutti i suoi viaggi, si era lasciato con curiosità contaminare dagli usi e costumi dei luoghi in cui era stato.
Da quel miscuglio di culture nacque il calcio italiano: dalla bellezza di un porto aperto, un pezzo di storia sociale di questo Paese. L'augurio è che una canzone scritta in preda alla tristezza da un artista, nel cui dna ci sono pezzi di mondo e sensibilità diverse e decollata da un pianoforte a San Francisco, rigeneri un territorio e restituisca, grazie a nuove contaminazioni sportive, la gioia di appartenere e prendersi cura di quello che si sente essere il proprio pezzo di mondo, lì sotto a un ponte crollato.
Identità e alterità sono necessarie l'una all'altra.
Anzi l'identità è un liquido che, quando sa mescolarsi, produce gioia e, quando non sa mescolarsi, lacrime. Chi afferma il contrario è un individuo pericoloso.