Il Paese emotivo senza lavoro
Dietro questa condizione c'è un paradosso economico-sociale, che merita di essere approfondito. L'andamento dell'occupazione in Italia negli ultimi anni è strutturalmente positivo: di solito, ciò si accompagna ad una crescita economica complessiva e ad un miglioramento del sentiment di fiducia nel Paese. Ma stavolta non è così. E lo stesso "successo" dei dati sull'occupazione, letto in controluce, racconta una realtà diversa: perché si tratta di un'occupazione (la nuova) a bassa intensità e di bassa qualità, con meno ore lavorate e più contratti precari. In cifre: se il numero di occupati oggi ha raggiunto e superato il livello pre-crisi (25 milioni e 494mila occupati nel secondo trimestre 2019, circa 90 mila unità in più rispetto al primo trimestre 2008), le ore lavorate sono ancora indietro di ben 600 milioni (10.981 milioni nel secondo trimestre 2019 versus 11.548 milioni nel primo trimestre 2018). Mentre per quanto riguarda la qualità dell'occupazione, è sufficiente ricordare che nel decennio 2008/2018 sono scomparsi dal mercato nazionale più di 1 milione di posti di lavoro a tempo pieno, sostituiti da contratti part-time o atipici caratterizzati da competenze meno qualificate.
Per tutte queste ragioni il lavoro - nonostante i numeri generali positivi - è diventato per gli italiani un potente fattore di ansia, di stress, di profonda inquietudine: lavoro che rappresenta "il" pilastro delle nostre comunità, il fattore decisivo del loro livello di benessere e di coesione. Dal rapporto Ipsos, dunque, arriva un segnale chiaro alla politica. Perché si preoccupi non solo della contabilità del lavoro, ama anche della sua emotività.
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