Il mujahidin che chiedeva: «Italiano, raccontami del mio re»
Era un bivacco, soffocato dal fumo denso e nero disperso nell'ambiente da un bidone, di quelli per la benzina, trasformato in stufa. Niente camino esterno. I binocoli dell'Armata rossa non dovevano individuarlo, per poi darlo in pasto ai cannoni. Kalashnikov e bombe a mano erano sparsi sul pavimento di terra, odore di capra e colpi di tosse che sembrava un'infestazione da Tbc, era tutto ciò che c'era, oltre alla infantile curiosità del comandante mujahidin: «Dimmi italiano: dov'è l'Italia?».
La tormenta di neve ci teneva prigionieri in quell'angusto ricovero senza ossigeno, schiena a schiena con un gruppo di guerriglieri pastori. I dominatori «straccioni» del più potente esercito straniero, l'Orso Sovietico, che dieci anni prima aveva invaso quel Paese. Dominavano le montagne dell'Afghanistan, la loro terra, e in quel periodo nell'anno del Signore 1988 stavano rimandando a casa Ivan e la bandiera rossa. La guerra non era affatto finita, e ancora da tane come quella che ci ospitava si controllavano le valli, e i destini mortali dei militari governativi e degli «shuravi», i sovietici.
Il comandante dalla barba bianca, i sandali di plastica, i piedi nudi nella neve, e l'inseparabile mitra, appena saputo dell'arrivo dell'italiano, lo volle abbracciare. «È Allah che ti manda. Il Misericordioso mi concede questa occasione per ringraziare il popolo italiano perché dà rifugio all'esilio del mio re». Sembrava quasi un'ultimo desiderio, il suo. E forse lo era anche. Il re era Mohammed Zahir Shah, innamorato dell'Italia. La conosceva bene. Ci passava le vacanze, tra Roma e Capri. Il sovrano si trovava a Roma nel 1973, quando il cugino Daoud Khan lo destituiva con un colpo di stato. L'esilio da Kabul di Zahir Shah durò trent'anni, ma sull'Afghanistan si abbatteva un flagello che ancora sparge lutto e sofferenza.
Chissà oggi dove sarà quell'anziano comandante mujahidin, «patriota islamico», analfabeta, dalla barba bianca, che abbracciava lo straniero cristiano, e mai avrebbe tradito l'onore dell'ospitalità da ricambiare per il suo re. Le strade non sono mai dritte e liscie, spesso, però, sono le nostre azioni a renderle impervie e disastrate. Così è accaduto nella storia recente e nei molti palesi errori di una politica internazionale occidentale sconsiderata, che non ha visto, che non ha voluto vedere, le conseguenze ovvie delle sue azioni. Guerre di strategia, spacciate per «doveri di democrazia». Il re è morto, e il kalashnikov continua a mitragliare.
Oggi i figli dell'Afghanistan ferito dalla guerra e mai curato dagli errori dei suoi invasori, si chiamano taleban, «studenti islamici», ed è assai difficile, per noi, oggi, ritrovare la stessa ospitalità del vecchio combattente dalla barba bianca. Due libri ci possono aiutare a conoscere meglio quel lontano e meraviglioso Paese, crocevia di storia che porta ai giorni nostri. Il primo, edito da Guaraldi nel 2014, col titolo «L'ultimo lenzuolo bianco - L'inferno e il cuore dell'Afghanistan», scritto da Farhad Bitani, un ex capitano dell'esercito afghano, oggi rifugiato politico in Italia. Più complicato ritrovare il secondo stampato da Vallardi editore nel 1951: «Afghanistan, crocevia dell'Asia». Autori i padri barnabiti Egidio Caspani ed Ernesto Cagnacci che in quel Paese ci vissero per 15 anni dal 1932 al 1947.
Il re Amanullah, concesse ai lavoratori e diplomatici stranieri, cattolici, stabilmente presenti in Afghanistan, di poter avere un cappellano cattolico per l'assistenza religiosa in una realtà totalmente musulmana. E lo fece nel 1922, per riconoscenza verso l'Italia, lo Stato che per primo aveva riconosciuto l'Afghanistan come Stato indipendente affrancatosi dall'Inghilterra.