Il termine "digitale", che genericamente descrive l'epoca, o la transizione epocale, in cui ci troviamo immersi, viene dal latino digitus, che si può tradurre con "numero". E ciò che sta alla sua base è la scoperta che qualsiasi porzione del reale può essere ora tradotta numericamente, trasformata in una struttura di dati, in un algoritmo. Questa traduzione numerica rappresenta uno strumento nuovo e al tempo stesso una forma diversa di vita: una vita smaterializzata, alleggerita dal peso delle contingenze, incredibilmente veloce, accessibile a tutti a qualsiasi ora (superando così le restrizioni del tempo) e in ogni luogo (superando le restrizioni dello spazio). Definire, per esempio, un computer come una mediazione è diventato un modo di pensare arcaico. I nativi digitali sanno che le nuove macchine sono un'estensione di sé stessi, come un elemento in ogni momento a loro indispensabile per attivare la loro relazione con le cose.
Io faccio parte di coloro che considerano intrusivo l'uso del telefonino quando si sta a tavola e di quelli che si rallegrano della sua proibizione a scuola. Ma so che questo è il XX secolo che combatte con il XXI secolo una battaglia perduta. Siamo nell'occhio di una tempesta e dovremo, come individui e come società, trovare una via equilibrata che non vediamo ancora chiaramente. In ogni caso, non possiamo più agire come se tutto continuasse come prima.