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Il mondo di Kundera, smarrito nell'«insignificanza»

Cesare Cavalleri mercoledì 6 novembre 2013
Milan Kundera non ride più. Dopo l'esordio con Lo scherzo (1967) aveva insistito con Amori ridicoli (1968) e poi con Il libro del riso e dell'oblio (1978), ma tutta la sua narrativa, compresa l'apicale Insostenibile leggerezza dell'essere (1984), è attraversata da quella che un poeta ha definito «l'estrema risorsa di un sorriso, / in dubbio, / nel crepuscolo dell'ora». Invece nel nuovo romanzo, La festa dell'insignificanza (traduzione di Massimo Rizzante, Adelphi, pp. 136, euro 16), Kundera fa dire a Ramon: «Da tempo abbiamo capito che non era più possibile rivoluzionare questo mondo, né riorganizzarlo, né fermare la sua sciagurata corsa in avanti. Non c'era che un solo modo possibile per resistere: non prenderlo sul serio. Ma mi rendo conto che le nostre beffe hanno perso ogni potere». Che cosa, dunque, rimane? L'insignificanza, appunto. Ancora Ramon, nell'ultimo capitolo: «L'insignificanza, amico mio, è l'essenza della vita. È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per riconoscerla in condizioni tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome. Ma non basta riconoscerla, bisogna amarla, l'insignificanza, bisogna imparare ad amarla». Come si è giunti a tal punto? Lo spiega, in questo libro complicato e colorato come un cubo di Rubik, in cui Kundera, come da un po' di tempo ci aveva abituati, racconta diacronicamente eventi simultanei nello spazio e nel tempo, nientemeno che Stalin. «L'idea più importante di Kant, compagni», spiega il dittatore ai suoi atterriti gerarchi, «è "la cosa in sé", che in tedesco si dice: "die Sache an sich". Kant pensava che dietro le nostre rappresentazioni ci fosse una cosa oggettiva, una "Sache", che non possiamo conoscere, ma che nondimeno è reale. Ma questa idea è falsa. Non c'è nulla di reale dietro alle nostre rappresentazioni, nessuna "cosa in sé"». E allora? Allora (è sempre Stalin che parla), interviene Schopenhauer con la sua grande idea che se il mondo non è che rappresentazione, per rendere reale questa rappresentazione ci dev'essere una straordinaria volontà che la saprà imporre. È la volontà di Stalin ad aver imposto un'unica rappresentazione al mondo non solo comunista, «finché le forze me lo hanno consentito. E vi garantisco che sotto l'influsso di una grande volontà la gente finisce per credere a qualsiasi cosa». La svolta avviene perché «hanno smesso di credermi. Perché la mia volontà si è infiacchita», e il sogno a cui Stalin aveva sacrificato tutto sé stesso, era "l'umanità": «Ma che cos'è l'umanità? Non è nulla di oggettivo, non è che la mia rappresentazione soggettiva, e cioè: è quello che ho potuto vedere intorno a me con i miei stessi occhi». E quello che ha visto è la mediocrità dei gerarchi che ha tuttora davanti, al punto che, per colmo d'insignificanza ha voluto dare alla città natale di Kant, Könisberg, il nome di Kaliningrad, in onore di Kalinin, il più mediocre dei suoi gerarchi, affetto da complicazioni di prostata, con umilianti problemi di incontinenza (Könisberg è a tutt'oggi Kaliningrad). Accanto all'insignificanza, la bugia, la menzogna. D'Ardelo, inguaribile Narciso, mentisce a Ramon di avere il cancro per vantare la propria forza d'animo; Charles, mediocre commediografo, e Caliban, attore disoccupato, inventano di parlarsi in pakistano per non farsi riconoscere quando, in giacca bianca, per campare organizzano ricevimenti in casa degli snob (e il dialogo senza comunicazione linguistica con la domestica portoghese è un estraniante, amarissimo pezzo di bravura). E c'è il tormento di Alain, figlio non voluto (la madre, per non farlo nascere, ha perfino tentato il suicidio, forse) che è diventato un "chiediscusa", con un intrico di coincidenza narrative che confermano Kundera (Brno 1929), non da oggi, il mio personale candidato al Premio Nobel. Kundera, che dal 1975 vive a Parigi e ormai scrive in francese, ha proibito che i suoi libri vengano tradotti in lingua ceca, e ne impedisce la diffusione mondiale in e-book.