Il più grande stadio di tennis del mondo, con una capienza di 23.771 posti, si chiama “Arthur Ashe Stadium”, sorge a New York e ospita gli Open degli Stati Uniti. Perché mai parlare degli Us Open proprio nella settimana di Wimbledon? Perché, in realtà, non ho intenzione di parlare di uno stadio, ma dell’atleta a cui quello stadio, il più grande di tutti, è intitolato. E perché quell’atleta è stato il primo (e al momento l’unico) tennista di colore a vincere, nel 1975, proprio a Wimbledon, il torneo dei gesti e degli abiti bianchi. E, soprattutto, perché quel tennista di colore il 10 luglio avrebbe compiuto 80 anni. Invece se ne andò trent’anni fa, vittima dell’Aids, contratto a causa di una trasfusione di sangue. Lui, il cui valore più alto era la reputazione, colpito nel fisico e nell’immaginario collettivo da una malattia che alla fine del secolo scorso era considerata uno stigma. «Arthur era molto più grande del tennis, era un guerriero», disse Yannick Noah, atleta scoperto proprio da Ashe durante un clinic a Youndé, in Cameroun. «Se sono diventato una persona migliore è per il tempo che ho passato con lui» ha detto un ragazzo dal talento complicato come John McEnroe. Arthur Ashe, nato il 10 luglio 1943 in quella Virginia ancora soggetta alle leggi della segregazione razziale, dedicò la sua vita alla fatica di doversi guadagnare il rispetto degli altri: troppo nero per essere amato dai bianchi, interprete di uno sport troppo bianco per essere amato dai neri. Modello di correttezza in campo e fuori, attento a dare sempre il meglio di sé, Ashe è stato per anni il paladino di chi rivendicava i propri diritti con l’esempio e il lavoro quotidiano. Il 20 novembre 1973 Arthur Ashe sconfisse Sherwood Stewart a Johannesburg, in occasione del primo match professionistico mai giocato da un tennista di colore in Sudafrica. Coerente con la sua battaglia anti-apartheid, Ashe aveva chiesto spalti desegregati, incontrato giornalisti di colore e i ragazzi di Soweto. Quel giorno di novembre del 1973 fu un giorno decisivo per aprire la lunga strada che porterà Nelson Mandela alla presidenza. Vincitore di tre tornei del Grande Slam e capitano in Coppa Davis, dopo un intervento chirurgico, nel 1988, contrasse il virus dell’Hiv negli anni in cui la malattia stava mietendo le prime vittime e portava con sé l’immaginario di nuova peste del secolo. Convocò una drammatica conferenza stampa per essere lui a dare la notizia, senza retrocedere mai nella difesa della sua reputazione né in quella dei diritti civili. Ashe non lasciò che la malattia distruggesse la sua voglia di combattere, e negli ultimi anni di vita scrisse un bellissimo libro che si intitola Days of Grace («Giorni di grazia») che è, insieme, un testamento struggente e uno straordinario inno alla vita e alla libertà.
Ashe, in un’intervista al termine della sua carriera, disse: «I campioni sono persone che letteralmente vogliono lasciare il loro sport migliore di ciò che era quando hanno iniziato. Questo è ciò che distingue coloro che sono campioni da coloro che sono semplicemente vincenti».
Buon compleanno, lassù, a un campione che ha cambiato, in meglio, sia il tennis che il mondo.
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