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Il limite delle immagini e le domande senza orizzonte

Alessandro Zaccuri giovedì 2 agosto 2018
La pallina non c'è, ma fa rumore lo stesso. Come se davvero rimbalzasse sul campo da tennis, come se la racchetta la colpisse con un ritmo più o meno insistente. Abbiamo già avuto modo di notarlo: nel cinema, che è arte del visibile, è spesso l'invisibile a fare la differenza. O, meglio ancora, quello che viene appena intravisto, l'esperienza liminare (sì, è una parola difficile, ma il concetto è facile: significa lo stare sulla soglia, né dentro né fuori) dell'immagine colta per un istante, subito perduta e proprio per questo viva più che mai nella mente dello spettatore. Succede perfino a noi, che siamo sempre lì con lo smartphone pronto per carpire un'istantanea, non importa quanto accidentale. E succede a maggior ragione a Thomas, che di professione fa il fotografo nella Swinging London degli anni Sessanta: un tempo che allora, mezzo secolo fa, risultava accelerato e frenetico, mentre adesso ci conquista per la sua involontaria lentezza. Lo stesso gesto di fotografare, per esempio, richiedeva la pazienza di mettere la pellicola nell'apparecchio, scegliere l'inquadratura, valutare la giusta esposizione e, infine, sviluppare.
Thomas, impersonato da David Hemmings, è il protagonista di Blow-up, diretto nel 1966 da Michelangelo Antonioni e vincitore della Palma d'Oro a Cannes l'anno successivo. Come più volte ricordato dal regista e dallo sceneggiatore Tonino Guerra, all'origine del film c'è un racconto del grande scrittore argentino Julio Cortázar, Le bave del diavolo, che a sua volta rielabora lo spunto di La mezzatinta, una delle più celebri storie di fantasmi del britannico Montague Rhodes James. Cambiano i contesti, ma il meccanismo rimane immutato e si basa su un'immagine che, dotata di vita propria, rivela una minaccia arcana e incombente (La mezzatinta), un'odiosa persecuzione politica (Le bave del diavolo) oppure le tracce di un delitto forse mai commesso. Questo è, com'è noto, l'enigma al quale Blow-up cerca di dare risposta, mettendo in conto la possibilità di un fallimento che riesce tuttavia a rivelare qualcosa della complessa relazione tra visibile e invisibile.
Molto apprezzato come fotografo di moda (nel film compare anche la leggendaria modella Verushka), Thomas è un artista inquieto e contraddittorio. Sta lavorando a un reportage sull'emarginazione ed è proprio il desiderio di osservare la realtà al di fuori del suo studio a portarlo nel parco in cui, quasi per caso, scatta le immagini fatali. È convinto di aver documentato l'incontro fra una donna e il suo amante, e quindi non si stupisce troppo quando lei, Jane (l'attrice Vanessa Redgrave), pretende che le sia consegnato il rullino. Solo durante lo sviluppo e il successivo ingrandimento, il blow-up del titolo, Thomas si rende conto che le foto nascondono gli indizi di un omicidio. Inizia così una ricerca sempre più solitaria, nonostante i tentativi compiuti dalla fidanzata del protagonista, Patricia, e dall'amico Ron, interpretati rispettivamente da Sarah Miles e da Peter Bowles. Nessun altro può decifrare le tracce nelle quali Thomas si è imbattuto, perché nessun altro ha visto o ha creduto di vedere quei particolari ancora indefiniti. Sotto il profilo narrativo, il fascino di Blow-up sta tutto nel gioco di contrappesi che rimandano continuamente la soluzione: quanto più appare evidente che qualcosa deve restare nascosto (le fotografie e i relativi negativi vengono trafugati dal laboratorio), tanto più Thomas si trova nell'impossibilità di ricostruire un quadro coerente. Ha visto, sì, ma questo non basta per sapere. È come se ci fosse un limite oltre il quale le immagini smettono di essere eloquenti e svaniscono, senza però smettere di interrogarci e addirittura di tormentarci.