Il leone del Panshir e il rischio-retorica che ogni tanto fa bene a mente e cuore
«Massud il giovane ha lanciato il suo nuovo e spettacolare appello alla “rivolta nazionale”. È sempre la stessa storia. Mai e poi mai il potere, i carri armati e le esibizioni di forza porteranno umanità. Dalle trincee dell'Ucraina sguarnita alle montagne del Kurdistan, anch'esse circondate, in nessun luogo gli arroganti trionfano per sempre sui popoli perduti, dimenticati, ma eroici. E a coloro che credono di aver vinto, che sparano in aria e ridono dei cadaveri di cui hanno colmato le valli, bisogna ripetere che non hanno né la dignità dei provvisoriamente vinti, né lo splendore di quei pochi che, affermava André Gide, saranno i soli a salvare il mondo. L'Afghanistan ha perso battaglie, ma non la guerra. È nella fossa dove sono caduti i combattenti del Panshir, ma la sua fiamma non è spenta e il Panshir non ha detto la sua ultima parola. Giace nelle confuse scie in cui oggi si mescolano le acque di uno dei più bei fiumi della terra e il sangue, i corpi, il fango dei combattenti uccisi – ma è qui che i semi della rinascita stanno già crescendo. I partigiani del Panshir, costretti a indietreggiare ma risoluti, sono come le donne di Herat, di Kabul e di Kandahar, che si ostinano a sfidare i talebani. Sono ciò che di misterioso rimane nell'umanità e che nessuna sventura può sottomettere. Sono quella parte, non maledetta, ma benedetta, che resiste, sopravvive e si rafforza nel crogiolo delle prove condivise. Il resto dell'Afghanistan. La speranza. Comincia la resistenza». Sembra di sentir risuonare la voce di Yves Montand: “Amico, lo senti il nero volo dei corvi sulle nostre pianure?”.