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Così la Cina sul Coronavirus ha censurato i social

Gigio Rancilio venerdì 13 marzo 2020

C'è spesso un'altra faccia della medaglia. Un lato più oscuro della storia e persino della cronaca. Cosi, dopo avere sottolineato quanto il digitale si stia rivelando importante nelle nostre vite ai tempi del coronavirus, e quanto se ne possa trarre di bene, se lo usiamo nella maniera migliore, oggi ci occupiamo dell'altra faccia della medaglia. E cioè, del "lato oscuro del digitale al tempo del coronavirus".
Se quello che sto per raccontarvi fosse un film, si aprirebbe con una ripresa notturna di un ospedale e la scritta "Wuhan - dicembre 2019". Il dottor Li Wenliang con i suoi colleghi medici ha scoperto da poco un inquietante agente patogeno sconosciuto, nei reparti del nosocomio dove lavora. Ma ha già intuito che si rischia un'epidemia molto seria. Per lanciare l'allarme fa di tutto. Compreso scrivere post sui social network. Solo che la Cina non è l'Italia. E quei post vengono intercettati e censurati. Così nessuno li legge. E di lì in avanti, chiunque scriva qualunque cosa su temi come epidemia, virus o sul mercato dei frutti di mare di Wuhan (che all'inizio sembrava essere il luogo dal quale era partito tutto) viene censurato. E alcuni persino denunciati.
Se fosse un film, questa storia non avrebbe bisogno di prove per essere raccontata. Ma siccome è una denuncia in piena regola, servono. Eccome. A fornircele è un imponente studio appena realizzato dal canadese Citizen Lab, ospitato dalla Munk School of Global Affairs and Public Policy dell'Università di Toronto (lo trovate qui ). Scrive il Citizen Lab: «YY (l'equivalente cinese di YouTube, che conta 300 milioni di iscritti, ndr) ha censurato sistematicamente le parole chiave correlate all'epidemia di Coronavirus». E ancora: WeChat (l'equivalente cinese di WhastApp e che ha 1 miliardo di utenti, ndr) ha ampiamente censurato i contenuti relativi al coronavirus, anche nei messaggi privati. «Non solo ha censurato le critiche all'operato del governo e le informazioni sull'epidemia, ma anche qualunque riferimento al dottor Li Wenliang».
Il lavoro fatto dal Citizen Lab è scrupoloso e decisamente ampio, come si può leggere nel loro rapporto pubblicato online pochi giorni fa, dove viene raccontato anche come la ricerca sia stata realizzata (lo trovate qui). A noi che non siamo informatici né esperti, suona forte nella testa la denuncia del gruppo di studio canadese: «Fino al 20 gennaio 2020, in Cina le persone sono state tenute all'oscuro. Mentre già da tre settimane i social media cinesi bloccavano qualunque contenuto parlasse di questi temi».
Arrivati a questo punto credo sia chiaro a tutti, quale sia il punto della vicenda. La Cina ha deciso di censurare qualunque voce non ufficiale, permettendo solo al Governo di dare notizie sull'epidemia, ma in questo modo ha bloccato qualunque denuncia e qualunque informazione utile non venisse dall'alto. Visto dalla nostra parte, in un Paese cioè dove sono circolate e circolano sul coronavirus fake news, informazioni errate e finte denunce audio e video (messe nei social al solo scopo di fare confusione o di screditare il Governo), può venire la tentazione di pensare che, in fondo, la Cina non abbia fatto poi così male. Ma sbaglieremmo di grosso. Non solo perché la censura di Stato è sempre pericolosissima, tanto più se operata da un Governo come quello cinese che non brilla certo per il suo amore per la democrazia. Ma anche perché – come sottolinea il Citizen Lab – «se contrastare la disinformazione e le speculazioni relative all'epidemia può aiutare a contenere la paura della gente, censurare e limitare le discussioni generali e le informazioni produce di fatto l'effetto opposto, anche perché limita la consapevolezza delle persone e quindi anche le loro azioni responsabili».
Per la serie: il digitale è una grande risorsa, ma anche un mondo nel quale censurare e orientare le masse è sempre più facile. Nel bene e nel male.