Nel mio mestiere di storica, la possibilità di tracciare un confine tra tradimento e compromesso mi ha sempre intrigata. È un altro dei mille intrecci tra morale e storia che si ripresentano a chi studia il passato, a volte come una sfida all'interpretazione, altre più sottilmente, come insinuandosi nelle fessure tra i fatti e nelle discordanze tra le interpretazioni. A partire dal processo Eichmann, per citare uno di quei casi in cui questo confine rappresenta un problema irrinunciabile, molto ci si è interrogati sui consigli ebraici nei ghetti nazisti e sul giudizio da dare sulla loro opera. Per salvare almeno una parte degli abitanti dei ghetti essi dovettero ad un certo punto sacrificare vecchi e bambini. In questa circostanza, ci fu chi, come il presidente del ghetto di Varsavia si suicidò, e chi sopravvisse per tentare di continuare a salvare il salvabile o anche, in alcuni casi, corrotto dal potere. Dopo la guerra, questi uomini furono visti come collaborazionisti da quegli stessi che avevano salvato e di cui avevano mandato alla morte figli e genitori. Come biasimare questi sopravvissuti, privati dei loro cari? Ma resta aperto il problema di quale sia stato il momento in cui il compromesso è divenuto vera e propria collaborazione con il nemico.