Il professor C. era un anziano primario oncologo. Figura imponente, i capelli bianchi, fiero. Le spalle massicce davano ai pazienti sicurezza: accanto a loro, a combattere, c’era quel gigante.
Lo incontrammo dopo mesi di peregrinazione con mia sorella quattordicenne, sempre più pallida. Il professore, all’avanguardia in quegli anni ‘60 a Milano nelle cure contro il cancro, aveva ancora speranza.
Ricordo come in una nebbia: nei sotterranei della clinica c’era una macchina nuova, con un nome complicato. Un gigantesco congegno che emetteva non so quale radiazione per arrestare la proliferazione cancerosa.
Per due mesi mia sorella venne portata nei sotterranei, alla macchina. A Natale era molto migliorata: venne a casa per qualche giorno. In poche ore, non so come, mia madre allestì regali, luci, decorazioni. Un meraviglioso Natale, come una grazia.
Ma al 7 gennaio, fatti gli esami, il professore tardava. Mia madre zitta, tesa, ad aspettare. Anche il professor C. quel giorno dovette farsi coraggio, per bussare. Entrò: sulla sua faccia di medico coraggioso c’era sconfitta e dolore. E paura, ad affrontare mia madre.
Il professore quella mattina aveva i lineamenti impietriti. Parlò a bassa voce. Vidi mia madre incurvarsi e come appassire. Il professore nel congedarsi abbassò gli occhi: un generale davanti a una disfatta. Ma mi fu caro, perché soffriva insieme a noi.
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