Il futuro di cui parlava nel 1929 in Scene della vita futura. Diario di un viaggio in America (Medusa, pagine 162, euro 18,00; presentato su queste colonne lo scorso 7 febbraio) lo scrittore francese Georges Duhamel (1884-1966), narratore e critico della società industriale, era incarnato dagli Stati Uniti, avanguardia novecentesca di uno sviluppo economico e di una trasformazione sociale e culturale che avrebbe coinvolto nel corso del nuovo secolo gran parte dell’Europa. Il Novecento sarà poi chiamato “il secolo americano”, e si capì subito che già allora era “il regno delle macchine, del dominio degli affari e del denaro”. Nella prefazione il curatore Giulio di Domenicantonio richiama il nome di altri precorritori analisti della civiltà contemporanea occidentale, Paul Valèry e Oswald Spengler, aggiungendo che Duhamel era «ossessionato da una domanda: si può resistere a questo nuovo dominio della scienza, e con quali mezzi? La resistenza contro questa civiltà delle macchine deve essere di tipo umanista? (…) Per Duhamel l’umanesimo europeo è stato spazzato via dalla Prima guerra mondiale. La crisi dello spirito generata dalla catastrofe europea ha lasciato spazio solo a un triste e inquietante macchinismo. L’uomo è dominato dalla macchina. È suo servo. Questa falsa civiltà algebrica tradisce i veri interessi umani, cioè l’ideale di un progresso morale e spirituale». Il divorzio culturale avvenuto secondo Duhamel già nel primo Novecento separava «il concetto di una civiltà essenzialmente morale capace di rendere i popoli più umani, e l’altra idea di una civiltà fondamentalmente meccanica». Il nostro attuale presente era quindi stato diagnosticato un secolo fa e anche prima, nel corso dell’Ottocento, eppure la nostra capacità di analisi e di previsione, invece che aumentare, si sta offuscando. Il futuro possiede una sua forza dovuta al fatto che non esiste ancora e che ci sta abituando lentamente ma quotidianamente al suo avvento prossimo, quando sarà più difficile giudicarlo. Diceva Duhamel nel suo diario di viaggio oltreoceano: l’America «non è un paese giovane in tutto. Quanto a civiltà materiale il popolo americano è più vecchio del nostro, è un popolo invecchiato bruscamente». E noi abbiamo ancora oggi a che fare con i problemi di un’America modernamente più invecchiata dell’Europa.
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