Il furore senza verità di chi muove all'attacco della Chiesa e del Papa
sul quale abbiamo lavorato insieme». Il giorno dopo sullo stesso blog compariva un articolo di uno dei tanti corrispondenti (tutti rigorosamente anonimi) del titolare, che decantava la rettitudine dell'arcivescovo in questione - sulla quale erano stati subito mossi rilievi sulla base dei precedenti di Viganò. Tutto questo mentre, contemporaneamente, il titolare di un altro blog, su cui era pure stato pubblicato il memoriale, raccontava dei suoi incontri con Viganò parlandone come di un «nonno» unicamente preoccupato del «bene della Chiesa». E ancora il giorno dopo lo stesso blogger lo intervistava, facendo molte domande tranne quelle che sarebbero state giuste.
Sulla totale inconsistenza e inattendibilità delle accuse di Viganò, e sulla sua da tempo naufragata credibilità personale, in questa settimana passata è stato scritto già tutto. Ma che vuol dire quel «ci abbiamo lavorato insieme», nuovamente confermato due giorni dopo dallo stesso giornalista? E i due contemporanei peana sulla figura di Viganò del giorno successivo? E tutto il resto? Ci dice abbastanza chiaramente che tutto questo chiasso è stato pianificato con attenzione dai ben noti settori anti-Francesco (che alla fine sono, sì, rumorosi, ma sempre i classici quattro gatti restano...), solo per gettare veleno nel pozzo. Per calunniare, per usare il verbo giusto. Esistono infatti, nel giornalismo, delle regole precise: una di quelle fondamentali è che se non ci sono riscontri, non pubblichi. Nella lettera di Viganò si parla di cose che sarebbero avvenute, di missive inviate a questo e a quello, di punizioni "segrete", di colloqui eccetera, senza però che nessuno di questi episodi riferiti sia in alcun modo riscontrabile. Qualcosa di cui anche un praticante di questo mestiere alle prime armi si accorgerebbe. E allora come mai giornalisti navigati hanno deciso di pubblicare la lettera in questione e il co-estensore ha osato riempire di contumelie la collega Falasca che ha inciso a fondo questo maligno "bubbone" con un fondo su "Avvenire"?
La risposta, purtroppo tristissima, è che è stato fatto apposta. Perché nel furore antipapale di questi gruppetti – attivi in Italia e Nord America soprattutto) – il concetto di verità (secondo il costume di uno dei loro fogli di riferimento) è un qualcosa che può essere liberamente e sistematicamente manipolato e calpestato, per tentare di infangare minare l'autorità di Francesco. Tutto è concepito per restare nel limbo della chiacchiera social, dove non conta l'oggettività, ma la soggettività: e così per ogni smentita che dovesse arrivare su questa o quella cosa raccontata da Viganò, in virtù della tecnica maligna con cui la lettera è stata pensata e scritta c'è già pronta la risposta – "Beh, per forza che smentiscono, ma..." – per trasformare questa evenienza in un'ulteriore occasione per inquinare le acque. Anzi, in qualche modo ci sperano.
Perché il punto, alla fine, è proprio questo. Chi ha gli strumenti adatti per poter valutare e giudicare questo tipo di vergognose operazioni? Perché non è la prima volta che ci provano, l'hanno già fatto in due o tre occasioni, a cominciare con i famosi dubia proposti come trappola a Francesco. Tutti buchi nell'acqua. Eppure questi subdoli eppure grossolani tentativi si rinnovano, sparsi come un lento veleno, con l'obiettivo di generare nella gente semplice un dubbio, un retropensiero, persino un'angoscia. Questo, e niente altro, vuol dire quel «ci abbiamo lavorato» e tutto il resto. Francesco, e con lui la Chiesa, vincerà di bene anche questa cattiveria che si alimenta di calunnie e insinuazioni. Ma chi lavora per alimentare un clima di divisione e sconcerto dovrebbe finalmente vergognarsi. E cambiare mestiere.