Il focolaio smaschera la fragilità del carcere
Ogni anno vi è una giornata in carcere dove vengono consegnati degli encomi a quegli agenti che si sono distinti per particolari azioni di coraggio. Quest'anno, se dipendesse da me, l'encomio lo darei a tutti coloro che stanno lavorando all'interno degli istituti penitenziari: difficile da spiegare e capire, se non si vede il modo con il quale stanno operando in situazioni al limite, dagli infermieri ai medici, dagli agenti ai responsabili del carcere.
Del resto, le criticità che il "sistema carcere" (e non parlo soltanto di Rebibbia) sta rivelando ora che l'emergenza pandemica lo ha investito in pieno, sono sotto gli occhi di tutti. L'aumento esponenziale del numero dei contagi tra la popolazione carceraria e gli operatori penitenziari costituisce il dato più visibile dell'incapacità di contenere e reagire alla diffusione del virus. Per questo tutta la popolazione detenuta e tutti coloro che nelle carceri lavorano dovrebbero essere vaccinati al più presto, per scongiurare che la situazione peggiori ancora fino a diventare ingestibile.
Una nota di biasimo, invece, l'assegnerei di certo alla pachidermica lentezza e "cecità" dell'amministrazione della giustizia: sarebbe bastato mettere in atto quanto la legge già prevede (arresti domiciliari, magari con il braccialetto elettronico; accoglienza in comunità per quanti ne hanno diritto) per alleggerire di molto la situazione. Ma anche gli interventi legislativi adottati sinora per ridurre la popolazione carceraria in chiave anti-Covid - peraltro mal interpretati da gran parte dell'opinione pubblica come un tentativo di aprire le porte del carcere a boss e condannati al 41bis - si sono rivelati del tutto insufficienti a raggiungere gli obiettivi sperati.
Padre Stimmatino, cappellano
Casa circondariale maschile
"Nuovo Complesso" di Rebibbia