Certi compiti non sono mai conclusi. Per esempio, imparare ad ascoltare, più che a temere, poiché l’ascolto è una forma di ospitalità della vita, e la paura una forma di rifiuto. Imparare ad associare, più che a dividere, perché quando il cerchio si allarga, abbracciamo più mondo. Imparare non a cancellare, ma ad integrare il vortice esteriore o interno che irrompe anche senza motivo apparente; l’imperfezione che si nasconde dappertutto e con la quale solo a fatica ci riconciliamo; ciò che è a prima vista dissonante, e le cui possibilità di armonia comprenderemo più tardi. Imparare non a trascurare, ma a interpretare la curva della solitudine che s’innalza in mezzo al cammino; il vuoto che in certe ore s’impossessa della nostra casa rendendocela sconosciuta e quasi astratta; il sentimento di quello che ci manca, e che ci mette i brividi. Imparare lungo il tempo non la strategia della fuga, ma la paziente sapienza della fiducia, che ci ripone in Dio e gli uni di fronte agli altri così come siamo. E noi siamo fragili e forti, vacillanti e sicuri, competenti e incapaci, desideranti e conformisti, sognatori e già sistemati. Ma noi siamo figli e figlie, fratelli e sorelle, ed è per questo che ad ogni momento la forza comune della fiducia può sovrapporsi alla dispersione e coniugarsi perché accada quel miracolo che è il fiorire della vita.
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