Rubriche

Il figlio del vento

Alberto Caprotti domenica 17 novembre 2024
Se non ci fosse il vento, dicono i cinesi, il cielo sarebbe pieno di ragnatele. Carl Lewis lo chiamavano “il figlio del vento”. L’ho visto correre, anzi saltare in lungo, nella sua ultima Olimpiade. Atlanta 1996, non una sbavatura d’aria, lui era classe pura. Spostava l’ossigeno mulinando le gambe: lo guardavi e ti svuotava il fiato finché non atterrava nella sabbia. Vento, vita, letteratura. C’è un libro scritto da un nativo americano, originario delle campagne del Kansas, William Least Heat-Moon, quello di Strade Blu. Ma il libro che conta qui è Praterie, e ciò che racconta. Cioè, che «dal vento viene il mare, dal mare la creatura dotata di conchiglia, da questa viene la roccia, dalla roccia l’erba, dall’erba il bisonte, dal bisonte il cacciatore…». L’uomo forse nasce dal vento, gli Indiani d’America invocavano “nonno vento”. E gli abitanti delle Isole Cook avevano un nome diverso per 32 tipi di vento. È tutto, è quello che basta. Affascina, travolge, muove la vita. Il vento è l’unico modo con cui gli alberi possono fare musica. Carl Lewis invece era un concerto. Non corre più oggi, l’età gli ha tolto le ali. Ma lo devo ringraziare, perché come ha scritto Jim Morrison, la solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno. E io, quel giorno ad Atlanta, per merito suo, non ero solo. © riproduzione riservata