Esattamente un secolo fa, nel 1921, fu pubblicata una delle opere più famose della filosofia del Novecento, il Tractatus logico-philosophicus dell'austriaco Ludwig Wittgenstein. Il libro comparve in traduzione italiana nel 1964, quando ero all'università, e affascinava e intimidiva fin dal titolo, così severo e ultimativo. Ai ventenni però succede più spesso del solito che la verità interessi sopra ogni altra cosa: ma il rischio più frequente è che finiti gli studi e abbandonata la vita studentesca, le necessità della vita adulta e le abitudini sociali sommergano il bisogno di verità fino a farlo dimenticare. Perfino coloro che esercitano una professione intellettuale sono spesso spinti proprio dagli ambienti e dalle istituzioni in cui lavorano a tradire i valori della loro vocazione originaria. La vita di Wittgenstein è stata un esempio del contrario, quasi che quest'uomo non abbia mai smesso di essere un adolescente idealista, solitario e selvatico, dominato da una passione teoretica e morale che non gli dava pace. Ma certo, anche limitandoci al solo 1921, l'atmosfera di allora imponeva compiti e doveri eccezionalmente impegnativi al pensiero e alla scienza. È l'anno in cui compaiono Tipi psicologici di Jung, Il significato della relatività di Einstein, Trasformazioni della democrazia di Pareto, L'analisi della mente di Russell, Psicologia di massa e analisi dell'io di Freud, mentre l'anno dopo sarà la volta della Terra desolata di Eliot e dell'Ulisse di Joyce, i due culmini letterari del modernismo. La cosa che colpiva di più noi studenti dei primi anni sessanta era il linguaggio di Wittgenstein, il rigore estremo con cui si era proposto di usarlo per impedire che fosse una lingua imprecisa e non onesta a produrre idee false e falsi problemi filosofici. Il suo programma era purificare, bonificare i territori del linguaggio filosofico tradizionale, in cui si era parlato di cose non chiaramente pensate né forse pensabili. L'insieme delle proposizioni o aforismi del Tractatus doveva essere secondo Wittgenstein uno specchio del mondo. La prima frase è questa: «Il mondo è tutto ciò che accade» e poi più avanti: «L'immagine logica dei fatti è il pensiero». Si trattava di un'impresa filosofica "igienicamente" fondata su fatti constatabili e su affermazioni progressivamente deduttive il cui compito è non tradire mai i presupposti empirici, cioè le affermazioni fattuali elementari. Divenne famoso l'aforisma conclusivo: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Il fascino del Tractatus era l'aura misteriosa che circondava la sua eroica, ascetica, umilissima chiarezza. Wittgenstein rispettava l'ineffabile e ciò che chiamava «il mistico» rifiutandosi di parlarne.