Caro Avvenire, ogni morte, ogni ferita, ogni difficoltà produce una cicatrice e la Palestina ha milioni di cicatrici. Per ognuno di noi che se ne preoccupa, queste cicatrici ci segnano. E non guariscono.
Mazin Qumsiyeh
Università di Betlemme
Caro Avvenire, l’attacco all’Unifil non è stato un errore, Israele aveva chiesto l’arretramento delle forze Onu. Perché queste non si sono spostate? Aspettavano il via libera dell’Onu filo-palestinese? Hanno mai letto il documento programmatico di Hamas? Israele ha superato certi limiti. L’Iran e i suoi alleati i limiti non se li pongono nemmeno.
Santo Bressani Doldi
Milano
Cari Lettori, unisco due messaggi di contenuto diversissimo, segno della divisione che la guerra – «un’illusione e una sconfitta», come ha detto domenica il Papa – crea nei cuori e nelle menti. Il professor Qumsiyeh è uno scienziato, fondatore del Museo di Storia naturale della Palestina e un attivista per i diritti del suo popolo. Non parla italiano, ma ha mandato anche ad Avvenire una sua nota in inglese, resa pubblica sui social media. È difficile restare indifferenti davanti alla tragedia della Striscia di Gaza, dove è morto durante l’anno di invasione israeliana circa un abitante ogni 50 (oltre 42mila le vittime) e uno su 23 è stato ferito (circa 100mila le persone colpite). E potrebbero esservi altri diecimila dispersi, in buona parte sepolti sotto le loro case distrutte. Fonti diverse ritengono che tra il 60% e l’80% degli uccisi siano civili non combattenti, con un’alta percentuale di donne, minori e anziani; meno del 50% per il premier di Tel Aviv Benjamin Netanyahu. Secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità quasi un quarto dei feriti ha subito lesioni invalidanti, soprattutto agli arti, e non ha accesso a cure adeguate né a riabilitazione. Si stima che siano state lanciate 75.000 tonnellate di esplosivi su Gaza e gli esperti prevedono che serviranno anni per rimuovere le macerie – più di 42 milioni di tonnellate –, tra le quali vi sono moltissimi ordigni inesplosi.
Non solo la gran parte dei centri medici sono stati bersagliati e messi fuori uso, ma quasi mille operatori sanitari sono deceduti negli scontri. L’acqua scarseggia (700 pozzi ormai inservibili) e il cibo non arriva regolarmente. I danni complessivi sono stimati in 33 miliardi di dollari, con il 60% delle abitazioni e l’80% delle attività economiche raggiunte da bombe o razzi. I numeri sono provvisori e in parte contestabili, anche se tante organizzazioni internazionali e testate giornalistiche li hanno raccolti con cura (non va dimenticata nemmeno la strage dei reporter: 175 quelli che hanno perso la vita, in prevalenza palestinesi).
Non c’è più dissenso sul fatto che la reazione militare legittima di Israele contro Hamas per il pogrom del 7 ottobre 2023 sia da giudicare ormai eccessiva e oltre le regole del diritto internazionale. Anche Hamas porta una grande responsabilità, prima per il massacro di civili ebrei inermi, poi per avere esposto la sua gente a pericoli certi disseminando i propri arsenali tra condomini, scuole, moschee e ospedali. La prudenza che di fronte a questo scenario ha caratterizzato la risposta occidentale sembra ora superata in seguito agli attacchi senza precedenti dell’esercito di Tel Aviv ai Caschi blu dell’Onu.
Qui, caro professor Bressani Doldi, bisogna intendersi. Certo, come anch’io ho già scritto, la missione Unifil non ha fermato l’escalation di Hezbollah, però nemmeno ha danneggiato Israele. Non aveva né il mandato né i mezzi per bloccare i contendenti. Ma non è stato l’Onu filo-palestinese, sono stati i singoli Paesi a essere troppo cauti. L’Europa manda i suoi soldati sulla linea di confine (dove svolgono comunque un utile lavoro), ma non ha mai chiesto o provato a renderli operativi per disarmare le parti nella zona di sua competenza. Sarebbe equivalso a entrare nel conflitto e subirne le conseguenze. Avremmo dovuto fare molto meglio politicamente tempo fa. Ma per la pace non è mai tardi, sebbene così tanto sangue sia stato versato (e venga continuamente sparso, a Gaza, in Cisgiordania, in Libano e in Israele). Stare semplicemente a guardare è qualcosa che non possiamo fare, salvo versare lacrime di coccodrillo a posteriori, come in Ruanda, a Srebrenica, in Iraq e in altre parti del mondo, dove qualcosa in più si poteva fare per limitare quelle orribili stragi.
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