Steve Doran è un neurochirurgo di successo, con oltre 25 anni di esperienza. Ma neanche lui può far sparire la morte.
Eppure tanti suoi pazienti gli chiedono proprio quello. «Spesso quello che prevale al momento della morte è la paura e il desiderio che il medico possa rimandarla all’infinito — spiega —. Ma questo desiderio che qualcosa di inevitabile scompaia porta inevitabilmente alla frustrazione, alla disperazione, alla rabbia e alla depressione».
Doran è arrivato a questa conclusione col tempo. All’inizio della sua carriera, invece, faceva di tutto per accontentare i suoi pazienti. «Vedevo quanto erano spaventati, e quando non riuscivo a rassicurarli mi sentivo in colpa — racconta —. Ero caduto nella visione medicalizzata della morte, dove il fin di vita viene trattato come una malattia, è il nemico da battere, e le realtà spirituali del paziente sono messe da parte con la vaga implicazione che ce ne preoccuperemo più tardi. Poi quando perdiamo la battaglia, perché le nostre medicine e i nostri interventi chirurgici non funzionano più, ci resta questa persona i cui bisogni emotivi e spirituali sono stati ignorati troppo a lungo».
Vedere la morte dei suoi pazienti come un fallimento ha portato Doran ad attraversare una grave crisi spirituale quando era alla soglia dei 40 anni. Questa l’ha a sua volta spinto alla preghiera e alla scelta di diventare diacono permanente dell’arcidiocesi di Omaha, in Nebraska.
Ma il cammino alla ricerca di modi per aiutare i suoi pazienti a “morire bene”, non è finito lì.
«Continuavo a essere sorpreso ogni volta che parlavo con qualcuno d’età avanzata o affetto da una grave malattia che non sapeva assolutamente come prendere decisioni per il fine vita — dice —. Mi trovavo a spiegare che cosa potevamo fare e mi trovavo di fronte al vuoto. Ora, è vero che è uno choc, ma è incredibile che così tante persone non abbiano mai contemplato la realtà della morte».
Di qui è nato il libro “To Die Well”, Morire bene, che Doran ha scritto per fornire una guida alla fine della vita dal punto di vista di un medico, ma anche di un cattolico.
Una guida pratica e spirituale, dunque, che demistifica il linguaggio medico e spiega senza tabù che cosa ci si può aspettare nelle ultime settimane dell’esistenza terrena e che tipo di aiuto si può ricevere. «Ho pensato alla complessità del processo decisionale e alle emozioni di quei momenti e mi sono detto che dovevo mettere insieme una referenza di facile accesso e comprensione», dice.
A un anno dalla sua pubblicazione per i tipi di Ignatius Press, Doran è felice che il libro ha suscitato tante conversazioni difficili — ma importanti — con i suoi pazienti e i loro cari. Ma scriverlo è stato importante anche per lui. «Mi ha aiutato a capire quanto sono privilegiato a stare vicino a chi è in punto di morte. La morte è un momento sacro, ed è una benedizione accompagnare qualcuno verso quella soglia».
Grazie al libro Doran è anche riuscito a mettere a fuoco la fonte del disagio che provava all’inizio della sua carriera: «È il fatto che la nostra cultura ci dice che una buona morte è una morte indolore, pacifica, circondati dai propri cari, che non dura troppo, ma abbastanza a lungo da poter dire addio a tutti. Ed è meraviglioso, ma il problema è che non può essere la sola definizione di una buona morte, perché questo standard porta naturalmente al suicidio assistito e all’eutanasia, perché faremo di tutto per raggiungerlo».
Doran ha trovato più utile interrogarsi su che cosa è una morte “non buona”. «Nella mia esperienza è quando le persone si aggrappano alle cose del mondo. Spesso sono affetti, come amici e familiari, ma il problema è non vedere oltre, e diventa molto, molto difficile attraversare il processo della morte senza un’inutile e terribile paura».
La soluzione, per il neurochirurgo, è interagire con i pazienti a un livello spirituale più profondo, facendo spazio anche nel contesto medico a conversazioni sulle loro paure e sulle risorse religiose, psicologiche, spirituali di cui l’ospedale dispone. «Creare questi momenti è una vittoria per tutti, e davvero ha arricchito la mia esperienza di medico».
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