Come è ormai tradizione da oltre vent’anni, martedì scorso la Ue ha celebrato la “Giornata europea delle lingue”, voluta a inizio millennio per valorizzare il patrimonio linguistico dell’Unione, tutelarne la diversità e proteggere gli idiomi delle minoranze, nazionali o transnazionali. Le quali sono davvero numerose, se si pensa che, accanto alle 24 lingue ufficiali adottate da Bruxelles, se ne contano un’altra sessantina, più o meno diffuse, che alcuni Paesi già riconoscono giuridicamente al loro interno, consentendone l’uso assieme a quella principale.
Più o meno negli stessi giorni, i vertici Ue hanno dovuto affrontare (per il momento accantonandola), una questione linguistica piuttosto spinosa: l’inserimento formale del catalano nel “paniere” comune, richiesto con insistenza dal governo spagnolo del socialista Pedro Sánchez. Il premier iberico, sconfitto ma non troppo alle ultime elezioni, proprio in queste ore si prepara a tentare una nuova scalata al Palazzo della Moncloa, per la quale ha assoluto bisogno del sostegno degli indipendentisti di Barcellona. Come contropartita, gli sono stati chiesti l’amnistia per i leader regionali fautori della secessione e, per l’appunto, la richiesta all’Europa di accettare il loro idioma tra quelli con il suo sigillo.
In realtà, la Spagna chiede di riconoscere, oltre a quello della “Generalitat”, anche i linguaggi della Galizia e dei Paesi Baschi. Per tutti e tre, da metà settembre, è stato concesso l’uso nell’aula del Parlamento nazionale - le Cortes - alla pari del castigliano. Il primo a intervenire in galiziano è stato, forse non per caso, un socialista di Lugo. Ma l’adozione in sede Ue preme soprattutto per i quasi dieci milioni di Catalani, sparsi nella regione di Barcellona ma anche in quella di Valencia e nelle isole Baleari, il cui peso politico è sempre più decisivo. Problemi di Sánchez, reagiscono in molti, più o meno sottovoce, dalle parti di “Palazzo Europa”, preoccupati in primo luogo per i costi e le complicazioni amministrative.
Già oggi, i servizi di traduzione simultanea e la redazione di tutti i documenti ufficiali in 24 lingue (utilizzando per di più tre alfabeti!) pesano sul bilancio comune per oltre 350 milioni di euro l’anno. L’aggiunta di un altro linguaggio, non legata all’ingresso di un nuovo membro dell’Unione che ne avrebbe invece diritto in base ai trattati, comporterebbe pesanti complicazioni, non ultima la ricerca di personale con alta specializzazione e, quasi certamente, lunghi periodi di addestramento specifico: provate voi a trovare pronti sul mercato un bulgaro o un lituano, capaci di tradurre in tempo reale in catalano un discorso pronunciato nell’aula di Strasburgo (o viceversa, ovviamente).
Ma la remora forse più diffusa tra chi sta frenando l’aspirazione della Catalogna, a parte la poca voglia di fare un favore politico ai socialisti spagnoli, è quella di aprire un varco a future rivendicazioni analoghe, che sarebbe poi più difficile contrastare. Perché è vero che la diversità linguistica arricchisce il patrimonio culturale dell’Unione. Ma occorre fare attenzione, specie in una Europa percorsa da nuovi fermenti nazionalisti, a favorire usi “identitari” della lingua, incoraggiando spinte separatiste di cui davvero non si sente il bisogno. Come si diceva nell’antica lingua che per secoli ha fatto dell’Europa un’entità ben compaginata, “est modus in rebus”. E andando ancora più indietro nel tempo, la Bibbia ci ricorda che, quando entrano in gioco orgoglio e ambizione, il “rischio Babele” è sempre in agguato.
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