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Il digiuno di Arlecchino e le nostre maschere

Gloria Riva giovedì 7 marzo 2019

“Le bugie hanno le gambe corte!”, tuonava la nonna sopra la mia testa mentre infilavo di corsa la porta dopo averne fatta una delle mie. Benché corressi a perdifiato quelle parole mi si attaccavano al collo e non c'era verso di liberarsene. Oggi posso ben dire: grazie a Dio! Grazie a Dio se quelle parole non mi scivolarono sulla testa, grazie a Dio se si sono appiccicate alla mia vita, mi è servito molto. Mi è servito a non ricorrere alla menzogna o all'omissione (che è una specie di menzogna legalizzata), soprattutto nelle scelte importanti della vita. E se la Quaresima viene ogni anno, viene per le sue iniezioni di verità, per far luce su infingimenti abitudinari, su scelte e parole infondate. Mi ha sempre impressionato quella frase lapidaria di Gesù riportataci dall'evangelista Matteo (12, 36): «Io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio». C'è di che tremare. Tutti dovrebbero tremare ma soprattutto noi, uomini e donne di Chiesa; noi popolo della comunicazione sociale che, della parola, abbiamo fatto una professione. Così mi è parso una sorta di logo per la Quaresima di quest'anno il dipinto di Carl Spitzweg dal titolo Mercoledì delle Ceneri.


I bagordi carnevaleschi sono finiti. Il nostro buon Arlecchino è finito in gattabuia. Si vede bene che non è la spelonca dell'eremita; una luce prepotente entra dalla finestra (altissima) mettendo in evidenza le sbarre. È proprio una cella, anzi un tugurio quello in cui è caduta la maschera più popolare al mondo. E quante maschere cadono in questi nostri giorni? Quanta gente che ha raccolto applausi e consensi e risatine di compiacimento, ora è costretta dagli eventi a una solitudine forzata? E quanto impariamo noi da tutto questo? Poco. O ci ergiamo giudici implacabili (come se tutto ciò che accade non sia, alla fine, monito anche per noi) o ci sediamo accanto all'imputato, pieni di commiserazione e di bontà. Spitzweg invece centra l'obiettivo. Viene sempre l'ora di togliersi la maschera e indossare i panni dell'essenzialità e della verità. Arlecchino è fortunato, quell'ora che sta vivendo è più vera di tutte le altre. Sì, indossa ancora il suo costume ridanciano, ormai ci è abituato, ma non ha lo stesso significato. Quello che resta è la brocca d'acqua, in primo piano a denunciare il suo nuovo regime alimentare, e il suo abito che è, di per se stesso, meditazione. Un abito fatto da tutti: tasselli cuciti per una maschera che non aveva dignità. Arlecchino ha il costume più bello e più popolare al mondo ed è stato realizzato con gli scampoli di stoffa dei compassionevoli, di quelli che hanno dato del loro, solo un pezzetto, forse, ma lo hanno dato.
Così siamo noi tutti, degli arlecchini. Nessuno sarebbe quello che è se non avesse ricevuto qua o là pezzetti di aiuto, di incoraggiamento, di sprone a continuare e dovremmo viver grati piegandoci al giogo del servizio della verità, senza indulgere in obbligazioni da comandi di scuderia. Forse la Quaresima dell'occidente dovrebbe essere proprio questo: un inno all'essenzialità del vero. Una passione per la parola fondata, misurata, capace di edificare.
D'altra parte il più potente dei profeti (almeno questo titolo lasciamolo a Gesù) prima di iniziare a predicare (lui che era il Verbo fatto carne) si lasciò spingere nel deserto per digiunare quaranta giorni. Noi, che in 40 giorni lo faremo solo 3, o 4 volte, approfittiamone al massimo per abbandonare i nostri arlecchinismi e radicarci nella verità.