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il diario di celio, l'appennino e il sogno (vuoto?) americano

Giovanni Lindo Ferretti domenica 4 dicembre 2011
Arrivano per posta, consegnati a mano alla fine dei concerti, me li portano a casa: canzoni, poesie, racconti, qualche romanzo, qualche saggio. Mi si chiede un giudizio, si aspira ad una presentazione, una prefazione, un intervento qualsiasi. Rispondo sempre: - no -. Non sono un critico letterario, non so dare consigli; scrivo per mio piacere, rasenta la necessità o il dovere, in ambito strettamente personale. Celio Tronconi è un mio compaesano, mi precede di una generazione, per un anno ha scritto il diario della sua vita; fermandomi per strada mi raccontava delle sue intenzioni e del suo procedere, poi l'ha finito e mi ha portato la prima stesura, l'ho letto e riletto e mentre pensavo come aiutarlo per la stampa ho trovato il suo libro in vendita nei bar e nei tabacchini della zona. "Il diario di Celio" comincia nel 1933, a ventesimo secolo già inoltrato e lo racchiude. E' scarno, lapidario, non contiene alcuna descrizione ma brevi pensieri, ricordi di accadimenti. E' pieno di fotografie a cui tiene molto. La più bella è la foto di famiglia e vale un saggio storico: la madre e la sorella corrispondono ad una iconografia ancora perfetta per illustrare la vita di Santa Giovanna d'Arco o Santa Genoeffa; i due fratelli più grandi sono immagine del secolo delle ideologie che stanno straziando il mondo, uno stile e un portamento tra il bolscevico e il nazista a misura di bimbo; i due più piccoli sembrano anticipare il baby boom e il miracolo italiano del dopoguerra. Quello che non è accettabile nella memorialistica sui tempi andati è la confusione, in parte voluta in parte subita, tra le cose e gli usi di una volta e la tradizione. Chi ha vissuto nel secolo XX non conosce la tradizione ma il suo tradimento conclamato e rivendicato. Celio vive e racconta di un tempo già trasformato, irrimediabilmente chiuso ad un passato che non osa nemmeno immaginare per non mettere a rischio le proprie certezze. Racconta di un borgo di montagna, estrema periferia del progresso, in cui troppo è già stato distrutto ma molto resta da fare per accedere al sol dell'avvenire. Chi potrebbe raccontare il mondo com'era, anche se già alla fine, sono i vecchi della sua infanzia: Francchin, la Jusfina, Gigi il brutto, il Meciai, ma per loro c'è il Paradiso in Cielo non la testimonianza in terra. Succedono ancora cose strane come la formaggetta rifiutata al frate e il latte che non vuol più cagliare. E' ancora in atto, perenne dissidio contenuto da usanze e buonsenso, la guerra tra pastori e agricoltori ma si stanno costruendo le fabbriche e gli uni e gli altri sono già destinati a diventare proletariato. Come guizzo fuori tempo, ma siamo montanari quindi in ritardo, scoppia a Scorgacan, e Celio l'intravede, l'ultima battaglia per i pascoli ma ci vorrebbe un bardo o un cantore delle steppe e montagne d'Asia per raccontare le gesta dei pastori guerrieri di Cerreto e Succiso.

Tempo a scadere per la democrazia tradizionale: «la regola, detta statuto, dettata dai capifamiglia ed approvata per alzata di mano», filosofi e politici hanno già deciso che ben altri sono i diritti e i doveri del moderno cittadino. Affiora tra lasagne ribassate per l'altitudine dell'Alpe e scarpe scambiate alla fiera di Sant'Ambrogio un'eco boccaccesca di arguzia popolana. Pochi e fulminanti accenni sociali: «con gli americani arrivò il boogie boogie che imparai subito», «con gli amici si andava a fare gli americani». Eccolo il sogno italiano: il benessere materiale, giubbotti moto e macchine, godersi la vita. Fare gli americani. Come non essere d'accordo? - Durarala? - direbbe Celio e con lui l'antica saggezza di un popolo estinto. Senza storia, senza memoria condivisa non c'è comunità, non c'è società, e la vita si consuma in uno sforzo di volontà che cumula il vano sul vuoto.