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Il D-Day, da “ultima pagina” a indicibile pensiero

Marina Corradi domenica 9 giugno 2024
Era nelle ultime pagine del libro di storia. Dopo il nazismo, la Notte dei Cristalli, la deportazione degli ebrei, e i lager; dopo la folla acclamante il Duce a Piazza Venezia nel giugno 1940, la guerra, il fronte russo, dopo l’8 settembre e l’Europa invasa dai tedeschi, e la Resistenza partigiana in Italia. Ma, nelle ultime pagine del libro di storia arrivava il D-Day. 6 giugno 1944, Roma appena liberata. L’Europa settentrionale però ancora nella morsa nazista: i carri armati tedeschi giravano per Parigi. E finalmente l’operazione Overlord, lo sbarco, e quasi arrembaggio, di una moltitudine imbarcazioni, militari e civili, cariche di decine di migliaia soldati Alleati. La più grande battaglia della storia. Gli Usa che riportavano la democrazia nei Paesi dei fondatori. Sulla Manica, quella notte, un movimento immenso di truppe, di uomini giovanissimi, inglesi, e americani e canadesi. Disposti a combattere e a morire per un’Europa che non avevano mai visto. E quanti ne morirono: mille in un solo giorno, a Omaha Beach. E poi, in quei giorni, oltre novemila. Le croci bianche nei cimiteri di guerra in Normandia, migliaia, nude, in fila, silenziose testimoni. Avevano vinto. Per noi ragazzi degli anni ’70, quelle pagine erano come gli ultimi minuti di un film terribile, che tuttavia finiva bene. Dopo uno straordinario sforzo e tanto sangue versato, le truppe tedesche arretravano. Cominciava la marcia verso Berlino. In Italia, il 25 aprile del ’45 sarebbe stato l’inizio di una nuova era. La democrazia, e poi una Costituzione che tornava a un’Europa umanista, cristiana nelle radici, certa dei diritti dell’uomo. E dunque il D-Day per noi era il principio del mondo in cui eravamo nati. Di più: l’alba di un’epoca diversa, in cui, credevamo, la guerra non ci sarebbe più stata. Non sarebbero mai stati mandati a un fronte, i nostri compagni. Nessuno avrebbe chiesto a noi donne di procreare figli per la Patria. Finito, basta. La Repubblica ripudiava la guerra. I racconti dei nostri padri reduci dal fronte e dalla prigionia, li ascoltavamo rispettosi e sbalorditi. Le bombe sulle città, la fame? Incredibile, per noi venuti su a omogeneizzati e biscotti vitaminizzati. La novità sconvolgente di questo ottantesimo anniversario del D-Day è che la guerra è tornata un’ipotesi possibile in Occidente. Non solo nel Donbass o a Kiev, ma, non si può escludere, nei Paesi baltici, in Polonia. Sempre più vicino. E quei missili puntati contro l’Europa, ma per decenni rimasti fermi, ora montano testate nucleari. Via, assurdo, impossibile, ti dici. Nello stesso giorno però il ministro della Difesa tedesco avverte che per il 2029 occorre «essere preparati a una guerra». E allora ti casca il cuore nel buio. 2029? Tu sei vecchia ormai. Ma i figli, e i nipoti appena nati? La dichiarazione del ministro tedesco scompare rapidamente dal web, soppiantata da titoli sul prezzo degli ombrelloni. Pensare ad altro vogliamo. Vivere. Andare al mare, è estate. Rimane dentro, come un brutto sogno che il mattino non dissolve, quel dubbio. Che non sia per sempre, la pace. Che non sia intoccabile, ovvia, scontata. Ed è una crepa nel cuore questo timore, mentre la scuola finisce, e i bambini cantano nella festa di fine anno. Applaudiamo, tacitando quell’assurdo, indicibile pensiero. © riproduzione riservata