Sulla costa toscana dove andavamo d'estate c'era un paesino arroccato su una collina. Mi piaceva andarci a contemplare il mare, dal belvedere dietro la chiesa. Quel giorno avevo con me solo uno dei figli, allora sui cinque o sei anni. Guidavo assorta, po' stanca di spiaggia, di chiasso, di chiacchiere fra sdraio. Mi sembrava che mi mancasse qualcosa – il silenzio forse, oppure una parola vera. Eravamo arrivati intanto a un incrocio dove, raro in quella Toscana allora rossa, stava un grande crocifisso di legno scuro. C'era uno stop. Passarono delle auto, ci attardammo qualche secondo. Ti compro la focaccia? chiesi al bambino. Ma lui, senza rispondermi, guardando il crocifisso domandò a bruciapelo: «Mamma, ma Gesù è vivo o morto? Perché sui crocifissi è sempre morto, ma noi lo preghiamo come se fosse vivo». Risposi naturalmente che Gesù era morto e dopo tre giorni risorto, e che era vivo. Poi però durante il giorno quella domanda mi tornava in mente, come una provocazione. Come se mi fosse stato chiesto: ma per te, veramente, Cristo è vivo o morto? È un ricordo, o una presenza concreta? In spiaggia, quel giorno le mamme discutevano di ricette di cucina. Bernardo giocava con la sabbia. Lo guardavo con meravigliata gratitudine. La domanda più importante, me l'aveva fatta un bambino.