Il clandestino
La prigionia, la calca di corpi nel buio, il sonno sfinito, per terra. La mattina, da una finestrina con le sbarre, avara, la luce del giorno. Passi pesanti per le scale, e di nuovo loro. Come bestie. Schiaffi, urla, “shlyukha, shlyukha”.
Impazzisci, se ne esci viva? O ti lasci morire di fame, o bevi fino a distruggerti?
E, quelle nove? Sedici anni, venti. Come mie figlie. Incinte. Terra occupata dal nemico. Cerco di immaginare l'angoscia di una ragazza che ha in sé il figlio del violentatore, dell'invasore. E non mi sento di giudicare, e non mi sentirei di costringere quelle ragazze a tenere il bambino. (Temo che finirà in stanze clandestine. Altro sangue. Sangue su sangue).
Ma, fosse successo a me? “Lui” non sa niente. Ignaro di tutto, non immagina di essere un clandestino. Se ne sta lì nel grembo che lo ha accolto: è caldo, e riecheggia di un ritmico battito dolce, che rassicura. Lui, si fida.
Ed è per questo, che non potrei cancellarti. Perché ti fidi di me, vivi di me, e se io ti caccio muori. Sei l'ultimo dei profughi, quello che zoppica, che resta indietro, il più inerme. Per questo io non potrei abbandonarti, bambino. E, nonostante la tempesta di odio per cui sei passato, io so - assurdo, vero? - che un giorno ti amerò.