L'Ecuador è un Paese bellissimo, popolato di cime vulcaniche, di città dall'architettura coloniale, di rovine inca, di popoli indigeni dalle montagne alla selva amazzonica e di isole tropicali. Ed è un Paese povero, se paragonato al nostro, con un'economia strangolata dal Fondo Monetario Internazionale e una moneta, il dollaro, asservita agli Stati Uniti. Come spesso accade, però, nei Paesi poveri l'epistemologia civile è più progredita che nei Paesi “sviluppati”. Cosa intendo per epistemologia civile? Tutte le soluzioni, le metodologie, gli approcci che servono a rendere la società civile in grado di affrontare i problemi. Si pensi ad esempio alla mobilità: un sistema a pochissimo prezzo e molto diversificato di autobus, camionetas, taxi collettivi consente alla popolazione anche più povera di spostarsi dal campo alla città, dal lavoro a casa senza dovere spendere più di un decimo delle proprie entrate. L'occasione in cui però questa “epistemologia” è molto più avanti che nel nostro Paese è il modo con cui le aziende private e pubbliche si servono di un know-how che proviene da esperti e ricercatori. Non c'è operazione pubblica che non richieda un “survey”, cioè una ricerca sul campo che sia orientata a comprendere quale ne sarà l'effetto. C'è un problema in una zona vicino a Guayaquil legato a un radar che dovrebbe prevenire e sorvegliare i movimenti dei narcotrafficanti? Quale sarà la reazione della popolazione locale, stretta tra la minaccia dei narcos e la voglia di non risultare pericolosamente alleata della polizia? Si mandano antropologi che devono tentare di capire cosa evitare e come indurre fiducia nella popolazione. È un compito difficile, che non può essere svolto da “interviste” uno strumento stupido e inconcludente inventato dai sociologi. Qui si tratta invece di una osservazione partecipata e partecipe alle preoccupazioni della gente. Oppure: una azienda privata vuole capire cosa pensano di un certo nuovo prodotto gli abitanti di una regione? Da noi si farebbe una inchiesta di marketing. In Ecuador viene richiesta una rilevazione sul campo, per capire gusti, cultura, comportamenti. Una azienda alle Galapagos vuole introdurre alcune operazioni di restauro ecologico, estirpare specie invasive, dare la caccia a un tipo di ratto che mangia le uova degli albatros? Si mandano antropologi a capire cosa di tutto questo pensa e sa la popolazione locale e come coinvolgerla. Il nostro Paese invece, ammalato di sociologismo e strategie di comunicazione pensa ancora che la gente possa “rispondere” online e in presenza e che poi in base alle risposte si facciano statistiche. Dimenticando il primo comandamento della comunicazione: la gente mente spesso e volentieri. Per questo accadono i disastri comunicativi. Come quella famosa campagna dove una grande multinazionale cercava di vendere agli utenti un telefono domestico con video incorporato. Come se agli utenti dovesse interessare essere visti in pigiama e assonnati di prima mattina, come se il fatto di essere visibili fosse considerato un'aggiunta di default al rispondere al telefono. Dimenticando anche in questo caso che uno dei grandi vantaggi del telefono è di essere un “surrogato di presenza” e non una presenza totale. Ai più preferisco dare la mia voce e riservo la mia visibilità alle persone che scelgo: con skype, whatsapp o altro. Il telefono è un filtro di sé, non uno sbracamento.