Il cibo che sempre manca quando la guerra infuria
Posso ben immaginare, Sergio. Sai, sull'argomento ho una discreta preparazione. Anche la mia mamma mi raccontava spesso della tessera annonaria che razionava quella già scarna gamma di alimenti: come il pane scuro e insipido, gli 800 grammi di patate ogni due settimane, il caffè fatto con la cicoria. E quelle lunghe umilianti file al termine delle quali, spesso, accadeva di portarsi a casa poco e niente perché nel frattempo le scorte erano terminate…. Deve essere stata davvero molto dura.
«Proprio così. Ricordo che si poteva andare dal macellaio per avere un po' di carne solo il sabato o la domenica mattina, mentre gli altri giorni, ci si poteva accontentare delle frattaglie che costavano di gran lunga molto meno. Grazie a Dio, noi avevano un piccolo orto dietro la casa e con le verdure la mamma riusciva ogni volta a fare piccoli miracoli: minestre con il pane raffermo o cotte sotto la brace del camino c'erano sempre. Un po' di fagioli, qualche cipolla ramata e marroni da trasformare in castagnaccio. Quando poi ci si procurava la farina gialla di mais era una festa di polenta che si conservava per il giorno seguente in una grande scatola di latta sulla dispensa accanto alla stufa. Pensa Ale, la propaganda fascista si era inventata persino uno slogan per imporre restrizioni alimentari sempre più rigide».
Uno slogan?
«Sì. Indimenticabile. Diceva così: "Se mangi troppo, derubi la patria". Una sorta di condizionamento subliminale. Suonava come una presa in giro per le diete forzate alle quali eravamo costretti. A ripensarci adesso, con più di un miliardo e mezzo di tonnellate di cibo sprecate ogni anno, mi sembra di vivere su un altro pianeta. E invece, come ci dicono gli esperti, basterebbe ridurre di appena il 25% lo sperpero di alimenti dei soli italiani, per imbandire dignitosamente la tavola dei 4 milioni di poveri di casa nostra. A volte mi sorprendo a pensare cosa accadrebbe se ci trovassimo invischiati in una nuova guerra. Anche solo di striscio, per così dire.
Allora il risiko dei conflitti dovrebbe fare di nuovo i conti con quello degli approvvigionamenti e dunque della fame. La dipendenza di aree del mondo poverissime come l'Africa, da Paesi dell'Est tradizionalmente granai, li condannerebbe a una veloce agonia. Ma nessuno è al sicuro. La forte vulnerabilità di un sistema alimentare ormai altamente globalizzato è seduta da un pezzo su un terreno minato».