Abbiamo sempre bisogno di energia, di restare connessi, di sentirci almeno per un attimo nella vetrina della storia. Così ci affanniamo, vestiamo giacche alla moda, compulsiamo di messaggi i social, tanto che se si spengono per un'ora sembra la fine. Non è un fatto di età, ma di coscienza del proprio stare al mondo e l'adulto scollegato spesso va in crisi più del ragazzino. Il simbolo dell'isolamento, del nostro perdersi in comunità di plastica, è il caricatore. Con poca batteria e lo smartphone in riserva, sembrano rallentare anche i battiti del cuore, e le parole galleggiano nel vuoto, aggrappate alla rotellina che gira sullo schermo. Non è tanto un problema di mezzi tecnici quanto di sintonia tra mente e mani. Prima c'erano il telecomando e la tv a insinuarsi nella quotidianità familiare, più indietro ancora il dominio della radio. È come se l'essere umano cercasse sempre mondi paralleli dove essere protagonista o almeno sentirsi tale. Il problema cresce quando nel rispetto della geometria queste realtà non si incontrano con la vita, e il virtuale, per ingenuità o paura, sbarra le porte agli incontri veri. Si, abbiamo bisogno di un caricatore, ma solo per rinforzare il coraggio di accorciare le distanze, di non perdersi di vista, di dimostrare a chi sta male che ci siamo.