Il calcio negato di Elias un ragazzo italiano
Il calcio è quello sport dove Francesco, Raffaele, Pietro si allenano con Elias e poi, loro, alla domenica mettono la maglietta con il numero e il proprio cognome sulla schiena e vanno in campo a giocare, mentre Elias li guarda con lo sguardo triste, seduto in jeans e felpa, dietro alla recinzione del campo.
Il calcio è quello sport dove Elias alla domenica deve andare in tribuna perché non ha il permesso di soggiorno in regola, non ha ancora la cittadinanza italiana e deve aspettare di compiere diciotto anni.
Il calcio è quello sport dove Francesco, Raffaele, Pietro quando uno della loro squadra segna un goal, tutti e tre corrono davanti alla recinzione dove è seduto Elias e lo abbracciano tra le maglie di ferro, felici di poter condividere in quel modo una gioia, anche se, in fondo, non capiscono proprio il perché.
Il calcio è quello sport dove un giorno la squadra di Francesco, Raffaele, Pietro segna e loro corrono verso il suo posto in tribuna, ma non lo vedono più, perché Elias ogni volta che vede che il suo cognome non è nella lista dei convocati perché il regolamento non lo permette, scoppia a piangere e resta a casa a guardare il risultato su whatsapp.
Il calcio è quello sport dove Elias fa il tifo per i suoi compagni come se giocasse perché, a essere sincero, questa storia che lui si alleni come gli altri e vada a scuola come gli altri e poi non possa giocare non gli va più giù, ma non può farci niente: è la legge, è la burocrazia, gli ripetono.
La squadra dove gioca Elias si allena nel quartiere Lucento, nella zona nord di Torino, meno di un quarto d'ora a piedi dallo stadio della Juventus, e questa storia risale a tre anni fa. Non so se Elias, finalmente, sia diventato italiano anche per la legge, se continui a giocare a calcio, oppure se si sia stufato e sia andato a fare altro. Quello che so è che il calcio è quello sport dove se, oggi, Francesco, Raffaele, Pietro ed Elias vedessero davanti ai loro occhi un campione di quelli famosi come, giusto per fare un esempio, Luis Suárez, attaccante uruguaiano del Barcellona probabilmente in procinto di passare a qualche squadra italiana, smetterebbero di ridere, di parlare, di scherzare, perfino di respirare. Sì, se quel calciatore di cui tanto si è letto perché «a uno che ha uno stipendio di 10 milioni la cittadinanza gliela devi dare» e devi fargli superare un esame di italiano anche se lui «parla con i verbi all'infinito» comparisse nel campetto di Lucento quei ragazzi sarebbero travolti dall'emozione e magari Elias troverebbe il coraggio di chiedergli la maglia. Così, dopo tutta quella rabbia e quelle lacrime, al successivo allenamento di quella squadra di Lucento, il calcio sarebbe quello sport dove uno come Elias indosserebbe con orgoglio infinito la maglia di una squadra importante, con scritto "Suárez" sulle spalle mingherline.
Il calcio nel frattempo è cambiato e, come altre federazioni, nei campionati giovanili ha introdotto una forma di "ius soli" sportivo. Perché questo è il calcio, questa l'enorme responsabilità sociale che il calcio (e soprattutto i calciatori) portano con sé, sulle proprie muscolatissime spalle, insieme a quella scritta che ricorda il loro cognome. È proprio vero: il calcio può cambiare il mondo, ma bisogna volerlo.