«Le vipere af-fettano il marmo»; «non è cifrato il palco dei cervi»; «è decuplicata l'ala del gheppio»; «le tigri immortalano il confine»; «del cavallo amo la missione e il morire senza mostrarlo»; «viviamo sul palato di un giaguaro che sogna» … Il bestiario di Davide Brullo (Gries, Aragno, Torino 2019, pp. 72, euro 15) non è zoologico, bensì araldico, austero e distanziato com'è da ogni connessione che non sia mentale. Dall'araldica assume anche la mise en abîme, la tecnica di inserire in un'immagine una piccola reduplicazione di sé stessa. Il passo del Gries, a 2.462 metri di quota, mette in comunicazione la Val Formazza con la Svizzera, anche un ghiacciaio ha lo stesso nome. Brullo ci va (ci ritorna) «per trovare i nomi», dato che per lui le realtà è sempre e solo linguistica, ma non può dimenticare che «mio padre era sepolto chilometri a valle», quel padre che non ha retto la vita e se l'è tolta quando Davide era bambino. Ferite cicatrizzate, ma la cicatrice è incancellabile. «Sul Gries non c'è vita né il getto della poiana / ma un pullulare di lettere con cui sigillare le labbra ai figli»: nessun paesaggio, nessun aggancio naturalistico, soltanto parole, anzi, vocali e consonanti che non danno comunicazione, anche l'educazione (linguistica) dei figli non fa discorso ma prelude al silenzio. La lingua di Brullo viene da un altrove che è il mondo interiore del poeta ed è congruo il rimando al dizionario, fonte d'ispirazione ed esito della non-prosa. Dal gelo del Gries al ghiaccio di Ushuaia. Ushuaia, nella Terra del Fuoco, è la città argentina più a sud del mondo, ospita foche, castori, uccelli marini come le sule, che si affacciano dalle righe di Brullo. Ma Ushuaia si fa persona, «ti ho chiamata Ushuaia per accelerare gli innocenti», e ancor meno con l'algida interlocutrice fiorisce una qualche ipotesi di dialogo: «Poiché la lingua è una cospirazione parliamo verbi assottigliati nel sale». Una cospirazione di chi e verso chi? Il poeta sembra appellarsi al lettore, chiamato a cospirare con lui per sgretolare il linguaggio. In ogni caso, i verbi disseccati nel sale sono vettovaglie come nelle antiche traversate dei pionieri e, forse, dei pirati. E poi si giunge al "Diario del padre", perché anche Brullo è padre e sa dirlo con lirismo insospettato: «Ma io ti ho visto / ed eri una lettera bianca / sulle acque - figlio biblico - chi ha il potere dell'aridità / e ostina un trapezio sugli indegni? // io ti ho visto e nessuno / sa vederti così amore mio / accolto e senza colpe - intinto / di mattini - nel bruciore dell'immortale». Il doppio finale, Cronache dal Gries e Il libro degli ingressi, è in forma di aforismi. Eccone uno: «Qualcuno dice che gli ingressi sono tra rimpianto e ipnosi - l'ideologia del rammarico». Marco Merlin firma col suo nome una Postfazione che poco spiega e nulla aggiunge, mentre in quarta di copertina, con lo pseudonimo Andrea Temporelli, asserisce: «Documentandoci l'atroce lotta per la sopravvivenza dell'umano dai limiti stessi della natura, le poesie di Davide Brullo diventano incisioni rupestri nella preistoria del nostro futuro, ci inducono a uno strappo evolutivo su sentieri spericolati, tutti ancora da tracciare».