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Ibrahimovic e la lezione della paura che arriva

Mauro Berruto mercoledì 7 giugno 2023
«Tutti siamo programmati, facciamo questo mestiere tutti i giorni. Sai già cosa devi fare, il panico arriva quando ti svegli e non sai cosa fare. Non ho programmi, normalmente facevo tutto con la squadra. Mi mancherà lo spogliatoio, che è una casa, una protezione per i giocatori». Parole di Zlatan Ibrahimovic e musica, struggente, quella del giorno del suo addio al calcio. Ibra ben rappresenta la suddivisione in due macro-categorie che, semplificando, contiene i calciatori: i talenti puri (sempre meno) capitanati da Lionel Messi e coloro che si sono “costruiti” con un lavoro quotidiano e straordinario su fisico e mentalità, categoria Cristiano Ronaldo, per intenderci. Naturalmente Ibrahimovic si offenderebbe molto se lo mettessi in questo secondo gruppo facendolo rappresentare da qualcun altro e rivendicherebbe l’esistenza di una terza categoria, dove collocare solo se stesso. In effetti Ibrahimovic è un caso a sé: trentadue trofei vinti in carriera giocando nei migliori club al mondo, ma senza una nazionale forte alle spalle. Alle spalle, invece, una storia personale affascinante, fatta di riscatto da un’infanzia complicata, ma con segnali già chiari, come ben ricorderanno i suoi avversari del Vellinge, quando in quella partita contro il Balkan un bimbo di due anni più giovane entrò in campo, nel secondo tempo, sul 4-0. Finì 5-8 e indovinate: chi segnò tutti quegli 8 goal? Ibrahimovic è noto anche per la contaminazione fra le discipline sportive, leggendaria è la sua passione per il Taekwondo che gli ha permesso di segnare bellissimi goal riproducendo i gesti acrobatici di quell’arte marziale. Un atleta straordinario a cui non ha mai fatto difetto un ego platealmente, potremmo dire scenograficamente, smisurato. Ecco perché ho voluto iniziare con quella sua frase nel giorno dell’addio al calcio. Quel “siamo programmati” e quel riferimento al panico che arriva quando quello che hai fatto da una vita, una mattina, non c’è più. Chi la parola “panico” non l’avrebbe mai immaginata sulle labbra di Ibra (semmai su quelle del difensore avversario designato alla sua marcatura) si è stupito ma, forse, ha ricevuto il regalo più bello di un campione al tramonto della sua carriera: la rivendicazione dell’esistenza della fragilità, della necessità di farci i conti, di trovare soluzioni nuove quando si parte per un nuovo viaggio. In questa società ipercompetitiva dove troppi giocano a essere Ibra senza essere Ibra è giusto, è bello, è umano, è perfino confortante che le ultime parole dell’Ibrahimovic calciatore siano un richiamo all’Ibrahimovic uomo, alla sua necessità di trovare un nuovo senso e alla paura che questo comporta, come sempre succede di fronte a ogni grande cambiamento. Di Ibrahimovic, coerentemente con il personaggio, non c’è una sola autobiografia, ma tre. Tre libri tutti scritti prima dell’addio al calcio di domenica scorsa. Sarebbe bello, molto bello, che ai nostri giovani arrivasse anche quest’ultimo messaggio: si può essere forti, fortissimi, ci si può sentire forti, fortissimi, ma poi arriva sempre un momento in cui non si può negare la propria fragilità, in cui non si devono nascondere le proprie paure. Perché quando quelle paure si manifestano si possono affrontare, proprio come quando si era in uno spogliatoio, senza pensarsi così invincibili da poter fare tutto da soli. © riproduzione riservata